Teatro
“Mi chiamo Omar”: una storia intima di ampio respiro politico
Questo spettacolo nasce da una lunga intervista che la sceneggiatrice Luisa Guarro ha realizzato al protagonista Omar Suleiman, cuoco, ristoratore, attore e promotore attivo di una resistenza culturale, esule palestinese, italiano di adozione. Le racconta la sua storia e cucina prelibatezze arabe mentre parla con voce profonda.
Non c’è scrittore, pensatore o artista che non abbia avvertito la necessità di misurarsi con un tema scottante e di grande urgenza umana come quello del conflitto arabo-israeliano. Nell’ambito del Masart Al-Funun, percorsi artisici tenutisi all’Ex Asilo Filangieri a Napoli, Luisa Guarro, regista attenta e sensibile agli interrogativi e alle emergenze del nostro tempo, si è cimentata nel suo personale e delicato racconto: “Mi chiamo Omar”.
Lo spettacolo è la narrazione di uno dei tanti figli della Palestina, Omar Suleiman, cuoco e attore, promotore attivo di una resistenza culturale che interpreta se stesso e racconta la sua storia di esule palestinese partendo dall’oggi e procedendo a ritroso nell’evocazione della sua vita da figlio della sua terra, abbandonata per seguire il suo sogno di studiare. Non è Parigi o l ‘America a accoglierlo, come lui avrebbe desiderato, ma l’Italia. Non Roma, Bologna o Milano, come da sua richiesta ma Napoli, come il fratello più grande aveva deciso. Secondo la tradizione palestinese, infatti, è il fratello maggiore a decidere le sorti della famiglia quando in assenza di un padre ne fa le veci.
Il padre contadino, che dopo scuola Omar aveva piacere di aiutare nel lavoro dei campi, rivive nella rievocazione di un figlio che quella terra la porta non più nelle mani, ma nel cuore e cerca con passione di dare una giusta chiave di lettura alle vessazioni che da settant’anni subisce il popolo palestinese.
Proviamo a immaginarci minuscole silhouette che si fanno spazio nella nostra mente, mentre le loro ombre nere, enormi, si allungano fino a toccarci attraversando l’aperta campagna degli anni. Magistralmente pensato, Luisa Guarro mette in scena la narrazione attraverso giochi di luci, atmosfere sospese tra presente e passato, dialoghi che ci riportano alla realtà sul dolore di chi da lontano sente, soffre, invoca giustizia e pace.
La Palestina non è mai sfondo, non lo è perché tutto, la simulazione dei corpi di donna che si muovono al ritmo di spari e lanci di bombe, le musiche che alternano la riproduzione della spensieratezza di una vita semplice al delirio del dolore, suggerisce una folla di concetti, d’immagini, di similitudini, che muovono e commuovono e conferiscono una forte ispirazione poetica a un evento pubblico come il reato politico più grande della storia contemporanea: la pulizia etnica di un popolo.
Squarcio nei meandri della memoria, il ricordo delle proprie origini è sollecitato dalla preparazione sulla scena del cuscus, trionfo di aromi attraverso cui i nostri sensi sono canalizzati per annusare atmosfere di un mondo agreste e passeggiare attraverso un percorso individuale e collettivo all’interno di un universo antico mistico e magico insieme.
Sensazione altrettanto forte è suscitata dall’uso di un drappo bianco che, oltre a fungere da schermo e da supporto al gioco di luci e ombre, nel richiamare il muro che divide Israele dalla Palestina rende la narrazione toccante, intensa, capace di farci sentire esseri umani moralmente piccoli come le figure che s’ingigantiscono per poi dissolversi come i corpi violati, spogliati, cancellati e dileguati delle vittime. Il drappo bianco è archetipo del confine tra umanità e brutalità così come il cibo accuratamente cucinato in scena dalle mani di Omar non è solo veicolo di affetti privati nella trasmissione di generazione in generazione ma infrastruttura di ritualità quotidiana.
L’intero spettacolo diviene, perciò, raccolta di memorie attraverso documenti autentici forniti dall’archivio della memoria personale, squisitamente umana.
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