Teatro
Mettersi in discussione con il nuovo teatro inglese
Uno nato a Oxford l’altro a Manchester, il primo trentacinquenne il secondo dieci anni in più, Mike Bartlett e Simon Stephens sono il meglio del teatro inglese contemporaneo, della generazione post Bennett-Bond-Stoppard, con la stessa poliedrica capacità di scrutare il presente con il materiale del presente – si veda la serie TV di Bertlett Doctor Foster o Punk Rock, omaggio di Stephens a Elephant di Gus Van Sant. Due teatri a Milano li affrontano contemporaneamente: Cock di Bartlett al Teatro Franco Parenti fino al 28 febbraio, Harper Regan di Stephens al Teatro Elfo Puccini fino al 6 marzo.
Quattro boxeur in una performance a sostegno della sessualità fluida. È questo in breve Cock, titolo non fraintendibile che affronta le impreviste sfumature della sessualità, in cui la trasgressione sembra migrare finalmente dalla parte dei rapporti etero. Perché pur di tradire il fidanzato castrante, il gay indeciso John si rifugia tra le curve di una ventottenne divorziata, con cui giace tra vaghe speranze di procreazione, «normalità» e vecchiaia condivisa.
Il testo di Bartlett si sviluppa con intelligenza e sfida il pubblico milanese a rimuovere i richiami di quella fossa delle Marianne del pensiero che fu Luca era gay, ma questo Bartlett non penso che lo sappia. La regia di Silvio Peroni è metronomica, seguita con virtuosismo dal ronconiano Fabrizio Falco, prestato a questo esperimento di teatro televisivo in cui solo il ritmo conta, la scena è nuda e ogni realismo sacrificabile.
Un gong incalzante scorta il pubblico attraverso configurazioni di affetti irrisolti e irrisolvibili. E la frustrazione, compagna di ogni scelta indefinitamente rimandata, si erge sempre più come totem sul ring che gli attori attraversano senza darsi mai tregua. La crisi culminerà in una cena, che ammicca per atmosfera ai tanti dinner movie su cui indugia da un po’ la nuova commedia all’italiana – vedi Il nome del figlio, Dobbiamo parlare. Ottimi tutti gli attori: Sara Putignano, Jacopo Venturiero ed Enrico Di Troia, nonostante la sua parte di padre sempliciotto sia ridondante nell’economia dello spettacolo. Sempre di Bartlett si attende al Parenti giovedì 25 febbraio la prima di Bull, con la regia del talentuoso Fabio Cherstich, già alle prese lo scorso settembre con un’ambiziosa e visionaria riduzione brechtiana di Terrore e miseria del Terzo Reich.
Se è chiaro fin da subito che il testo di Bartlett resterà aperto, Simon Stephens riesce invece a chiudere il suo Harper Regan con un granello di serenità in più. Regia di Elio De Capitani e cast di elfi doc, il dramma scandaglia i più cupi tormenti di una famiglia inglese non proprio qualsiasi, con figlia dark, marito pedofilo e moglie fuggitiva con nome letterario, Harper per Harper Lee – a cui la produzione è stata dedicata.
Con la scusa del padre malato, Harper scappa da lavoro e famiglia per ristudiarsi da capo e misurarsi con impreviste azioni e reazioni, poco importa se violente o squallide. Così si allontana per due giorni dalla sua casa di bambola, in febbrile ricerca di nuovi incontri, non solo sessuali, non per forza significativi. Per lei ogni estraneo apre a un duetto e ogni duetto arricchisce il suo moderno bestiario, con medici troppo emotivi, giornalisti nazisti e strafatti, desiderabili diciassettenni da baciare o sconosciuti da incontrare in camere d’albergo. Al termine del percorso, le tre voci famigliari si ricomporranno in un finale sinfonico in dissolvenza. Non c’è moralismo in Stephens e in quest’opera il perdono non è nemmeno contemplato: quello che Harper cerca è soltanto il laico adeguamento alla nuova forma della sua vita, attraverso l’espediente del viaggio che De Capitani sembra aver rinchiuso in ambiente sterile, nell’implacabile serra di Carlo Sala, a metà strada tra uno studio medico e un manicomio.
Perfetto il naturalismo sospeso di Elena Russo Arman, sempre in scena per tre ore a costruire per frammenti la seconda Harper della sua carriera – dopo l’indimenticabile Valium dipendente di Angels in America. Brillanti le altre interpretazioni, tra cui spicca Marco Bonadei, giornalista esagitato e imballato che allinea freccette al muro con precisione millimetrica, oltre alla dolce figlia punk Sarah Regan di Camilla Semino Favro.
Entrambi gli spettacoli riflettono sul passaggio all’atto di quelle possibilità e cambiamenti che di solito ristagnano nella zona d’ombra dell’inazione, dei desideri più timorosi, delle speranze vane: sia John sia Harper cercano nuove strade per allontanarsi dalla loro quieta routine ipocrita perché entrambi, con disagi ed esiti differenti, avvertono la medesima smania di verificarsi.
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