Economia
Meglio soli? Etica e estetica del monologo
Nel volgere di pochi giorni, abbiamo visto, a Roma, ben tre monologhi. Tutti eccellenti, soprattutto dal punto di vista delle tecniche e delle qualità degli interpreti. Il primo di Leonardo Capuano, il secondo di Michele Sinisi e il terzo di Ermanna Montanari. Se quest’ultima– fondatrice e anima del Teatro delle Albe di Ravenna, forse una delle migliori attrici italiane in attività – è sicuramente conosciuta ai miei quaranta lettori degli altri due magari possono sfuggire storia e peculiarità. Per quel che mi riguarda, posso ammettere, considerata l’età, di aver visto i debutti di entrambi, di averli teatralmente visti nascere.
Di Leonardo Capuano ricordo ancora un bellissimo Sa vida mia perdia po nudda: era il 1997, e con forza da lottatore mescolava lingua sarda e Dostoevskij. Fu un incontro folgorante: Capuano è un attore straordinario dalla cifra intensa, dolente. Al Teatro Argot, a Trastevere, ha presentato Elettrocardiodramma: una tirata surreale, comico-grottesca, in cui dà voce a una strana figura di dropout, balbuziente, forse psicopatico, certo disagiato. Vestito da donna, evoca avventure semiserie, situazioni strazianti, ipotesi surreali di vita. Richiamando, nella cifra, non solo un maestro come Danio Manfredini, riferimento evidente, ma anche certe caratterizzazioni di Antonio Albanese, Leonardo Capuano affronta il raccontare il disagio con forte empatia.
Su piani diversi si muove il potente Michele Sinisi, che ripercorrendo, nell’inglese originale, l’incipit del Riccardo III di Shakespeare dà vita a una partitura psicofisica emozionale ed emozionante. Un tavolo-lavagna, pochi elementi scenici, un litro di alcol che impregna con il suo acre odore tutta la saletta del Rialto, lo spazio occupato al Ghetto. Di fronte a un pubblico non numerosissimo, Sinisi sfoga in violenza selvaggia la frustrante condizione dell’attore oggi: con reiterazioni ossessive e azioni a loop, in una spirale che è crescendo continuo, senza lamentazioni o autocommiserazioni, ma anzi mostrando il proprio valore con rabbia maltrattenuta, il bravo attore pugliese compone un altro tassello del suo attraversamento shakespeariano. Avevo visto, ormai anni fa, il suo Otello, e ritrovo una maggiore consapevolezza, una grande sapienza che mi ha fatto pensare ad un altro lavoro, di rara bellezza, quel Seul di Wajdi Mouawad visto alla Biennale di Venezia 2013.
Infine Ermanna Montanari. Nell’ambito della rassegna “A Roma! A Roma!” diretta da Francesca De Sanctis, al piccolo Teatro Due, la Montanari ha presentato La camera da ricevere, una sorta di “soirée di gala”, un percorso sul filo della memoria fatto di brani, di lacerti, di una costellazione di spettacoli, abbracciando un arco di tempo dal 1989 a oggi. Ermanna conferma – semmai ce ne fosse bisogno – che straordinaria “macchina attorale” sia diventata. In questo collage, forse troppo algido e emotivamente “distante” dal pubblico, regala camei nel terrigno dialetto romagnolo di Nevio Spadoni o nell’elegante tessitura verbale coniata per lei da Marco Martinelli. Evoca spettacoli diversi, da Refrattari a Lus, da Rosvita al recente e bellissimo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, che fa da emblematica chiusa a questo mirabile e raffianto montaggio.
Ecco, presto detto, dunque, dei tre lavori. Ma resta da interrogarsi sull’etica e l’estetica del monologo di ritorno. Se negli anni Novanta abbiamo avuto la pletora dei monologanti – narratori civili e incivili – spinti da un sincero tentativo di esplorare delle forme diverse di racconto, oggi assistiamo a questo ritorno di fiamma per una forma che suona, più che “scelta”, una effettiva “rassegnazione”, una sorta di dichiarazione di impotenza. Il problema, infatti, più che estetico sembra economico. Allora ci troviamo di fronte a questi spettacoli necessariamente piccoli, spogli, minimali – per quanto belli e potenti possano essere. Che so: come se il cinema italiano facesse solo cortometraggi.
Nel desolante scenario nazionale, reso ancora più inquieto dalla imminente riforma di settore, pare tutto bloccato. Nessuno osa rischiare, i soldi non ci sono, le tournée sono ormai ridotte all’osso. Gli artisti sono davvero preoccupati.
Ermanna fa storia a sé, ma vedere due talenti come Capuano e Sinisi sbattersi come matti, donare generosamente emozioni, maestria, urlare aspramente quel disagio che rasenta la frustrazione significa fare i conti con un sistema decisamente fuori sesto. Si avverte, insomma – o almeno io l’ho avvertita come tale – tutta la solitudine (non solo scenica) di chi deve combattere quotidianamente, e sono tanti, per far vivere la propria arte, per far sopravvivere il proprio teatro. Penso anche, tanto per citare solo tre nomi, a Roberto Latini, che ha debuttato da poco con un assolo su I giganti della montagna a Bologna; o al drammaturgo e attore Michele Santeramo, in scena a Pontedera; o ancora la brava Elena Arvigo, che sceglie un monologo di Stefano Massini. E tutta o quasi la bella iniziativa di “A Roma! A Roma!” è composta da monologhi fatti da artisti attivi in altre città d’Italia, troppo a lungo assenti dai palcoscenici capitolini, ma che possono venire in città solo con la formula economicamente più gestibile. Tutto bene, per carità: sono spettacoli mirabili. Troppo spesso, però, la forma “assolo” sembra non essere più consapevole frutto di scelta estetica, né di orgogliosa e rivendicata separatezza. Disperatamente, nonostante tutto, questi artisti fanno spettacolo. Ma ditemi voi: come si può far teatro in tre, dieci, venti se non c’è più nessuno che si accolla gli oneri (e gli onori) di produrre? Che fine fanno questi bravi attori?
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