Teatro

Medea nella terra del Colosseo

13 Luglio 2015

La terra. La polvere, il fango, la sabbia, la cenere. La polvere che si alza e vola nella notte romana, sovrastando tutto e tutti.  Il nodo, nella Medea senechiana vista al Colosseo, è proprio non perdere contatto con la terra. Tenerci i piedi ben piantati sopra, pestarla, tirarsela addosso.

Per Lars von Trier la Medea era una storia d’acqua, per il regista Paolo Magelli e lo scenografo Ezio Toffolutti la natura di questa tragedia è terrigna: se Medea lascia Corinto è finita, se prende il mare – ubbidendo a Creonte che la condanna all’esilio – non ha speranza. Nonostante sia di stirpe divina, una semidea, è donna: e in quanto tale non avrebbe avuto (allora) speranza. La versione di Seneca, difficilmente collocabile cronologicamente come tutte le opere teatrali del filosofo di Cordova, è forse più aspra di quella di Euripide. Si sa, ai romani piacevano le cose forti, e in più – governando Nerone – la concorrenza era spietata: i circenses attraevano il pubblico più delle tragedie.

Ma rivedere Medea oggi, a distanza di secoli, proprio al Colosseo, è come una rivincita – simbolica, morale – dell’arte teatrale.

Io c’ero, quindici anni fa, quando per la prima volta l’Inda diretta da Walter Le Moli portò alcuni spettacoli dentro l’Anfiteatro Flavio: ricordo una bellissima Antigone iraniana, ad esempio. Poi non se ne fece più nulla: ci consoliamo con quel “plastico” del Globe Theatre a Villa Borghese, ma bistrattiamo o sottostiamiamo – come avviene a Ostia Antica – i nostri teatri romani.

Con piacere salutiamo dunque questa Medea al Colosseo, per tre sole sere (debutto stasera, biglietti piuttosto cari per circa 500 posti) per volontà del Ministro Dario Franceschini, determinato a sfruttare al meglio l’arena, con la collaborazione della Sovrintendenza, dell’Inda (Istituto Nazionale del Dramma Antico, che ha prodotto lo spettacolo), di Rai5 che riprende tutto e di Electa.

Per quel che mi riguarda, allora, ho avuto il privilegio di essere stato accreditato alla prova generale: non tutto è filato liscio, ma lo spettacolo c’era. Ed è, voglio dirlo subito, un bello spettacolo.

Medea, regia di Paolo Magelli, foto di Luca Cortina
Medea, regia di Paolo Magelli, foto di Luca Cortina

Lo scenario, ovviamente, è più che suggestivo: la scena ridotta rispetto a Siracusa fa salva la terra, pochi elementi e delle pozze di acqua circondata da sale.

Entra subito Medea: che è Valentina Banci, attrice di gran carattere. Seneca la vuole immediatamente al centro della tragedia, già si avverte la ferocia dell’eccidio. Valentina Banci si sperde, bamboleggia, torna dura, violenta, aspra. Viene messa alla gogna, si avventa su di lei il coro: che è possente nella sua eleganza. L’estetica dei costumi (sempre di Toffolutti) evoca l’espressionismo alla George Grosz, passando per lo jugenstill di Koloman Moser fino alle silhouette o alle sequenze care a Pina Bausch. Insomma: un immaginario visivo anni Venti, più mitteleuropeo che non mediterraneo: una Medea già maciullata nei “Materiali” di Heiner Müller o nel cinismo di Karl Krauss. Insomma, un Seneca da trincea, quasi da Prima Guerra Mondiale che si dipana nel coro. Avrà gran ruolo il coro: fatto soprattutto da attrici fiere, voci nette, sguardi che tagliano e denti pronti a mordere.

Medea-Banci, intanto, vira alla follia d’amore: “tutto sempre per Giasone”. Si scontra con Creonte (bravo Daniele Griggio a modulare intensità diverse), re con un panama al posto dello scettro: lei si difende, ha salvato gli eroi greci della nave Argo, non può essere esiliata; il re vorrebbe essere inesorabile – ma, segnando la sua condanna, non lo sarà. Si alza la polvere sull’Anfiteatro Flavio, vola in grandi folate nella calda notte romana, avvolge Medea ormai sola, non consolata nemmeno dalla nutrice (la dolente Francesca Benedetti). Nell’incontro-confronto con Giasone (il sempre ottimo Filippo Dini, che alla generale è però partito gridando un po’ troppo) si consuma la tragedia: e sappiamo come andrà.

Gaspare Urso 2

Quel che è bello, qui, è l’indecisione finale di Medea, quel suo andare e tornare, quel non riuscire a staccarsi da terra: non volerà via nel carro del sole, ma resterà accovacciata a prendersi secchiate di cenere addosso, proveniente forse dal palazzo di Creonte, raso al suolo dall’incendio.

Lo spettacolo, si diceva, ha momenti notevoli, è avvincente e straziante nel dipanarsi come un’ineluttabile corsa verso lo sfacelo, con un ritmo intenso, avvolgente. Ci sono punti di rara bellezza: l’invocazione al popolo delle ombre, con l’anfiteatro che si illumina di luce gelida, spettrale. Ed è bella l’entrata finale del coro, avvampato di incendio e poi immobile, sul fondo.

O dei dettagli, commoventi: quel correre a piccoli passi di Medea, quel suo arrampicarsi su un cumulo di terra e continuare a camminare affondando, e quella frase: “Balia, va a chiamare i bambini” che è micidiale come una frustata.

Altre sequenze sono proprio discutibili: un video, sul finale – che spero Magelli abbia avuto il buon cuore di togliere per il debutto – completamente inutile; oppure una sequenza tra il rap e il lounge che stona nelle belle musiche di Arturo Annecchino, con il coro costretto a muoversi tra l’isterico e il sincopato. Però questo coro merita esser citato per il contributo notevolissimo dato allo spettacolo: Elisabetta Arosio, Simonetta Cartia, Giulia Diomede, Lucia Fossi, Clara Galante, Ilaria Genatiempo, Carmelinda Gentile, Viola Graziosi, Doriana La Fauci, Lorenzo Falletti, Diego Florio, Sergio Mancinelli, Francesco Mirabella. Bravi e brave.

Luca Cortina 2

Deve esser stato strano, per i protagonisti, passare dall’applauso di 2500 persone del Teatro Grecodi Siracusa a quello dei 140 spettatori della prova generale al Colosseo. Ma sono certo che il buon vecchio Seneca, lassù, applaudisse sonoramente: una bella rivincita, seppur momentanea, sui circenses che ancora attanagliano Roma.

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