Teatro
Medea Alcesti Antigone: donne animali nella visione di Terzopoulos
Quelle donne che sono e sfidano la natura: Medea, Alcesti, Antigone. La prima si invola verso il sole, dopo la carneficina che provoca in una vera e propria rappresaglia contro Giasone. La seconda scende agli inferi – da cui tornerà – sacrificandosi per l’inetto Admeto. La terza resta a metà, tra la città dei vivi e quella dei morti. A queste straordinarie figure tragiche si è dedicato il regista Theodoros Terzopoulos, uno dei grandi maestri della scena internazionale, allestendo Exodos, un intenso, vibrante, aspro monologo in cui l’attrice Sophia Hill dà corpo e voce non solo alle tre eroine ma anche alla Pizia, qui presenza evocatrice di visioni, ma anche narratrice che intreccia le tre storie in un comune destino. Lo spettacolo è un viaggio sospeso nel tempo, è un struggente rito di dolore antico e di passioni eterne. Il tocco di Terzopoulos è nella scelta dei testi, nel legarli assieme in un omaggio che travalica le dimensioni spaziali e temporali.
Dall’assoluto divino, di deità sospese in una natura oppressiva, alla dimensione più umana e terrigna, quello che sembra interessare al regista è cogliere nella temperie delle tragedie originali quei momenti in cui queste tre donne sembrano staccarsi, andarsene per sempre, comprendendo e denunciando il proprio stato di nomadi, di passanti su questo mondo e su questa terra. Devono essere-andare altrove, una volta compiuta la loro funzione. Forse per salvarsi, chissà, ma certo consapevoli dei cadaveri, simbolici o reali, che si lasciano dietro.
Dopo aver debuttato nella splendida cornice di Delfi, Exodos è approdato in Austria, alla periferia di Vienna, nel festival Art Carnuntum (di cui dirò tra poco) e in un anfiteatro romano, ben conservato, si è ripetuto questo rito di tragica separazione. Alla terra, a una dimensione naturale guarda il regista, collocando peraltro l’allestimento in un segmento di resti archeologici non garantito, scomodo, da domare. E Sophia Hill, sovrastata da una corona di imponenti alberi, si è subito impossessata non solo dello spazio, ma anche – grazie alle sue straordinarie doti interpretative – del pubblico. Senza microfono (eh sì, ci sono ancora attrici e attori, per fortuna non pochi, capaci di affrontare lo spazio aperto senza microfono) Sophia Hill ha dato vita a una Medea infastidita da api e vespe che evoca, geniale!, semplicemente agitando le dita delle due mani davanti la bocca e con suoni tutti particolari. L’impatto è clamoroso, ammaliante, struggente. Siamo con questa Medea impastata di natura, di animalità, di sole e caldo estivo – anche se nell’anfiteatro la temperatura era decisamente bassa. Medea si staglia con la sua programmata vendetta, si svela vertigine animale, potenza assoluta. Poi, guidati dall’eco della voce della Pizia, ecco arrivare Alcesti: muovendo lo splendido costume, diventa quasi animale, uccello, rapace. E qui il gioco vocale è davvero sorprendente. Hill “canta” ogni sillaba, ogni parola spezzettata, la lancia in un cielo stellato, piccoli acuti, stridii, quasi canti di uccelli satanici. Tutto in levare, il racconto di Alcesti diventa una musica straziante, al tempo stesso evocativa della natura e totalmente antinaturalista. In completa controtendenza rispetto a banali strade mimetiche, Terzopoulos ancora una volta rovescia lo sguardo, abbraccia un teatro affondato nel “naturale”, nella carne, nel corpo umano, e ne fa raffinata partitura concettuale e astratta. Non ci sono psicologismi, immedesimazioni, si dà il dettato del testo, millimetricamente, eppure tutto assume il sapore grave di una arcaica tragicità, di una ribollente magmaticità vicina a quel che, possiamo presumere, era – e magari è – Dioniso. Natura viva e vera, insomma, ebrezza e violenza, bellezza e devastazione.
Così, finalmente, ecco una Antigone capace di scalare la struttura dell’anfiteatro, di arrivare lontana alla sommità, circondata da alberi della fredda notte austriaca. Diventa potentissima, si addossa la gonna ampia a mo’ di manto – con un effetto inatteso – che sarà la sua condanna, la sua grotta, il suo destino e la sua fine. Cala feroce verso la platea, invoca la sua sorte. Sappiamo chi è, cosa sarà di lei. Eppure ancora proviamo un dolore intenso, una paura antica.
Lo spettacolo è stato lungamente applaudito ed ha rappresentato il momento di punta di questo vivace festival, che da decenni anima il piccolo centro di Petronell, dove si trova il sito archeologico di Carnuntum, città fondata da Marco Aurelio. Si tratta di un ampio insediamento romano – non sto qui a scriverne la storia – ma, soprattutto, è il luogo che un visionario studioso e organizzatore di origine italiana, Piero Bordin, scelse come sede del festival, cercando da subito un collegamento con la tragedia classica. Dall’anfiteatro sono passati Bob Wilson e Peter Brook, Gerard Depardieu e Tadashi Suzuki, Peter Stein e Tony Harrison, naturalmente Terzopoulos e molti altri. Purtroppo, Piero Bordin se ne è andato prematuramente quest’anno, colpito da infarto. A prenderne l’eredità artistica è la giovanissima e coraggiosissima figlia Constantina Bordin, studi in filosofia e storia bizantina, che ha voluto onorare il padre portando comunque a termine questa non facile edizione. Accanto alla parte spettacolare, dunque, anche mostre e un simposio dedicato alla figura e al percorso artistico di Theodoros Terzopoulos, con studiosi e studiose di tutta Europa (compreso, fieramente, il sottoscritto). Un festival, dunque, da continuare a seguire con attenzione.
Ma, per quel che mi riguarda, resto con quell’immagine di donna-animale, di potente creatura sovrannaturale, feroce, inarrestabile, inafferrabile, che passa e va, lasciandosi dietro una scia di sangue.
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