Teatro

Mauerspringer: il festival europeo del teatro di strada secondo Alberto Grilli

28 Agosto 2019

Superare i limiti, i muri e gli steccati culturali, sociali e geografici attraverso l’esperienza teatrale, riscoprire lo spazio pubblico, come luogo di conoscenza e di aggregazione, ritrovare la scena fuori dallo spazio limitato del teatro: sono questi alcuni dei fili rossi annodati per la realizzazione del Festival Europeo del teatro di strada “Mauerspringer, saltatori di muri”, che dal 3 al 13 settembre animerà i centri di Faenza, Brisighella, Solarolo, Castel Bolognese, Riolo Terme e Casola Valsenio con una serie di spettacoli e laboratori aperti a tutti. In un’epoca in cui sempre più forti tornano a farsi sentire le spinte alla chiusura, alla distinzione “io/altro”, la paura del diverso, questo festival, culmine di un percorso sperimentale di cooperazione teatrale sorto nell’ambito del programma Europa creativa e che ha visto coinvolti 6 partners di 5 paesi europei (Francia, Germania, Serbia, Spagna, Italia), vuole parlare al vissuto di ognuno di noi, creando un ponte verso l’Europa. Immaginare di saltare un muro, osservare rifugiati e cittadini che decidono di trasformarsi in animali domestici per attirare la nostra attenzione, viaggiare su un autobus di linea per scoprire, attraverso un racconto urbano per tappe, quanto le nostre città siano cresciute sotto la spinta di diverse influenze culturali: tante esperienze per uscire dal nostro “guscio”, per abbattere i muri culturali che, invece di proteggerci, ci impoveriscono giorno per giorno.

Abbiamo parlato del progetto e del festival con il regista e direttore artistico Alberto Grilli del Teatro Due Mondi di Faenza chiedendogli, come prima cosa, da dove sia nata l’esigenza di prendere parte a questo grande progetto Europeo e di farlo portando in strada, fuori dai contesti ordinari, la scena.

La domanda da cui siamo partiti ci è stata in parte imposta dal contesto italiano. Dove sta andando il teatro all’aperto, il teatro di strada? Sempre meno progetti prendono vita, sempre meno produzioni da parte di compagnie che lavorano su una drammaturgia strutturata. Il teatro di strada in Italia è diventato sempre più sinonimo di performance circense, d’improvvisazione o estemporanea che, senza nulla togliere ai colleghi, rappresenta un modo di fare spettacolo molto differente da quello teatrale in senso stretto. Parallelamente chi vive invece nelle scene “chiuse” dei teatri stabili o gestisce le stagioni “al chiuso”, guarda al teatro di strada come a un teatro di terzo piano. Questo implica un diverso approccio da parte del pubblico, ma anche di organizza e promuove eventi culturali. Noi abbiamo sempre seguito questo tipo di percorso e, oggi a maggior ragione, ritenevamo che fosse importante non solo portarlo avanti, ma anche creare sinergie con altre realtà europee. Soprattutto visti i tempi in cui viviamo.

Tempi di chiusura (di confini, nel privato domestico) che inevitabilmente portano a diffidenza e solitudine…

Sì, da una parte il riemergere di destre populiste in gran parte dell’Europa, dall’altra una politica della paura del diverso hanno reso i cittadini sempre più spaventati e, anche fisicamente, chiusi dentro ai muri da loro stessi costruiti per difendersi dal diverso. Ma questa chiusura porta alla sterilità culturale e, da un punto di vista sociale, alla solitudine appunto. Noi da anni abbiamo lavorato con cittadini, stranieri, migranti, persone appartenenti a diverse generazioni e realtà, riappropriandoci di uno spazio che gli italiani hanno, in gran parte dimenticato, quello pubblico.

L’assenza della piazza nella nostra vita di tutti i giorni. Un luogo che, per le generazioni precedenti, era invece il simbolo stesso di una comunità…

Spesso si sente dire che le piazze, i parchi sono percepiti come luoghi poco “sicuri” per la presenza di stranieri. Già di questo dovremmo discutere, ma la cosa fondamentale è che noi per primi abbiamo abbandonato le piazze. Lo “straniero” ha solo occupato uno spazio che era stato lasciato vuoto. La nostra socialità è profondamente cambiata in questi decenni e questo ha causato un allentamento dei rapporti interni alle comunità. Con il nostro lavoro, con questo festival, puntiamo a riannodare questi legami, almeno per lo spazio di una rappresentazione o di un laboratorio.

Un teatro di servizio?

Un teatro popolare: per costi, spazi, modalità di partecipazione. Però teatro. Cercheremo in questo di saltare anche il muro che divide la critica e la produzione italiana dal teatro di strada, riappropriandoci di una dignità che ci compete e che nel resto d’Europa è pienamente riconosciuta. Anche rispetto a questo progetto, i diversi approcci riscontrati nelle tappe che hanno preceduto quella italiana, ci hanno dato modo di scoprire modalità di relazione col pubblico, con gli enti organizzatori, con le comunità ospitanti molto diversi e da cui trarre importanti spunti. La tappa di Bilbao, in uno spazio urbano complesso e ricco di contraddizioni, è stata molto diversa da quella nel piccolo villaggio della Loira che, per tre sere di seguito, ha visto il convergere di tante famiglie da tutti i territori circostanti proprio per partecipare alle rappresentazioni. Anche questo significa conoscere, abbattere i muri.

Un lavoro militante quindi…

Fare teatro di strada è militanza. Da una parte per i contenuti veicolati che, non avendo la mediazione della “sala”, possono incontrare anche un pubblico “casuale” che si trova a passare in uno spazio consueto e magari fermarsi incuriosito. Dall’altra per la ripresa e conservazione di una tradizione, penso a quella del Living Theatre, che qui in Italia rischia di perdersi e richiede, appunto, ancora un lavoro di trincea per tenere viva un’eredità culturale fondamentale per il nostro paese.

Qui la brochure con il programma del festival

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