Teatro

Massimiliano Civica e la risata agghiacciante delle Belve

24 Aprile 2018

“Facce ride” gridava il pubblico del Teatrino della Barafonda in Roma di Fellini. E il povero guitto, là sul palcoscenico, doveva iniziare un corpo a corpo con gli spettatori per sopravvivere. Se avesse strappato una risata, magari rispondendo prontamente allo spettatore irriverente, il gioco era fatto, il comico riusciva. A me tornava in mente quella disperata fatica assistendo alla micidiale farsa, titolata Belve, messa in scena da Massimiliano Civica al Metastasio di Prato.

Non c’era chiaramente niente di divertente nel testo scritto, con il consueto rigore da Armando Pirozzi: forse perché in questo Paese del taralluccio e del vino, in questo paese ridanciano e forcaiolo, ci resta ben poco da ridere. Quando un ex politico condannato fa il suo piccolo show a favor di telecamera dopo le consultazioni presidenziali, quando prende il microfono per dare l’ultima battuta, allora è chiaro che la farsa è in mano alle belve, quelle vere. Che il sorriso è un ghigno grottesco, una smorfia che spacca a metà la faccia e mostra i denti rifatti.

Lo spettacolo visto al Metastasio è un meccanismo svelato, è un’autopsia a cuore caldo, è un ricordo, o forse un’astrazione, qualcosa d’impossibile. Snaturando e svelando la chiave del comico, Civica e i suoi attori ne mostrano l’ineluttabilità, ne evocano la parossistica permanenza come indagine prioritariamente fallimentare.

Foto D.Burberi

Ci fa lavorare, Civica: ci dà una ipotesi di pensiero che ciascuno, in proprio, deve poi elaborare o mettere a frutto. È imprendibile, impalpabile – come lo era Quaderno per l’inverno – ai limiti dell’evanescenza: ma il meccanismo di furioso annientamento è radicale, come lo fu per Alcesti. Là era la tragedia, qui è la farsa; là un classico; qui un contemporaneo che strizza l’occhio alla tradizione, a Ionesco o a Feydeau, a Eduardo o Petito fino alle parodie delle telenovele di Chiquito e Paquito (ricordate?) o proprio all’avanspettacolo caro a Fellini. E se la D’Origlia-Palmi, la celebre compagnia di guitti amata anche da Carmelo Bene, faceva ridere involontariamente, qua si procede al contrario: con Belve pare che, volontariamente, non si voglia o non si possa far ridere, perché quel che c’è, è denuncia. L’amara considerazione sul talento e sul potere, sulla famiglia e sull’immodificabile, eterna, ambigua, collusa struttura sociale italiana. Belve, a prenderlo sul serio, come dobbiamo fare, è il racconto, sotto veste comica, della lotta di classe: anzi, meglio, sul disparità di classe, tutt’altro che risolta. E sull’ossessione del successo o dei soldi.

La trama poco importa: se prendiamo sul serio l’operazione non possiamo fare altrettanto con l’intreccio. Dovessimo leggerlo letteralmente, andremmo poco lontano. L’autore ovviamente lo sa: è al limite del non senso, con un gioco di entrate e uscite, di agnizioni e apparizioni, di intrecci e di amori tanto folli quanto estemporanei. Ma in quella (ultima) cena, messa in scena come un rito sacrificale, c’è tutto il fascino asfissiante della borghesia: bigotta, credulona, arrivista.

Foto D.Burberi

E il “comico”, quello delle antiche farse che Pirozzi evoca bene, non ha più spazio, non può più esserci. Oramai il comico è appaltato al cabaret televisivo degli imitatori, agli animatori solerti, alle risate registrate, agli applausi a comando. La storiella esile di Belve, autodiffamandosi nel mostrarsi semplicemente per quella che è, ossia una finzione metateatrale, dichiara la sonora sconfitta di una civiltà che, da Aristofane ai Comici dell’Arte e giù sino ai rari campioni superstiti di oggi, è svanita nel ricordo.

Non c’è più quel teatro, ecco perché la farsa è possesso dei mostri che taglieggiano le nostre esistenze: politici, amministratori, manager, grand commis, i boiardi di stato, insomma, che ridendo si arricchiscono. La risata di quel tale che gioiva al terremoto è il negativo della farsa di Civica. Dovremmo ridere, e non ridiamo più. Restiamo agghiacciati: mentre qualcuno ride, si scompiscia, sopra le nostre teste.

Questo spettacolo non manca, però, di sequenze esilaranti, regala sorrisi sornioni e travolgenti gag: è divertente, soprattutto perché ben giocato dal cast di attori, capaci di tenere, con rigore, i propri personaggi che potrebbero “sbracare” in macchiette ammiccanti. Vale allora citarli tutti, bravi e ugualmente partecipi del disegno registico e drammaturgico: Alberto Astorri, Salvatore Caruso, Alessandra De Santis, Monica Demuru, Vincenzo Nemolato e Aldo Ottobrino.

Allora probabilmente sbaglio, forse non ho capito: ma mi sento di dire che, per quel che mi riguarda, questo spettacolo è esattamente l’opposto di quanto Civica scrive nelle sue note di regia. Lui si appella alla tradizione popolare, e passi; evoca due maestri come Carlo Cecchi e Leo De Berardinis, e possiamo capire perché; ma non può misurare, come scrive, l’esito di questo lavoro con la risata del pubblico. Al contrario: se dovesse contare solo su quella reazione, questo spettacolo sarebbe inutile. E se invece, come fa, ci pianta un chiodo in fronte ogni volta che ridiamo, allora sì: ci ha raccontato qualcosa di tutti noi.

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