Teatro

Massimiliano Civica e la poesia delle vite minime

1 Maggio 2017

Milo De Angelis, uno dei nostri grandi poeti, in un bel libro edito recentemente da Mimesis – dal titolo La parola data, volume di grande profondità accompagnato da un interessante documentario di Viviana Nicodemo – afferma tra l’altro: «La poesia può salvare la vita oppure metterla in grave rischio. È sempre una esperienza al limite, cosa naturale quando ci si affida interamente a una parola che non è mai al passo con i tempi: pochi oggi la leggono e pochissimi la comprendono. In quanto esperienza del limite, contiene in sé gli opposti, le vie divergenti, l’inconciliabile, la salvezza e la condanna a morte. Ogni poeta è messo a ferro e fuoco da questa battaglia di contrasti».

Sembrerebbero quasi essere partiti da qui, il regista Massimiliano Civica con l’autore Armando Pirozzi, per la messa in scena di Un quaderno per l’inverno, fortunato e incisivo spettacolo prodotto dal Metastasio di Prato.

Spettacolo breve, a dire il vero – appena 50 minuti –, che pure affronta in modo allegorico, quasi fosse una parabola, un tema arduo come il senso e il valore della poesia: a che serve, se serve, la poesia?

Su questo tema si confrontano e si intrecciano le vite di due inconciliabili personaggi: un piccolo delinquente e un professore di letteratura. Così, mentre si dipanava il dialogo – sospeso, allusivo, ma anche divertente, commovente addirittura – mi tornavano in mente le parole di De Angelis, che nella poesia vive. Poesia come esperienza del limite, dunque essere il limite: non solo travalicare – in un impeto superomistico – l’orizzonte di se stessi. Vivere il limite significa esperire, quotidianamente, quella possibilità che Amleto chiamava essere e non essere. Significa contenere gli opposti e, soprattutto, non essere mai al passo con i tempi. Essere anacronistici. Ecco: il teatro di Massimiliano Civica è uno splendido esempio di anacronismo, di sfasamento, di quella che Giorgio Agamben chiamava contemporaneità: «appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente né con esso né si adegua alle sue pretese, ed è perciò in questo senso inattuale. Ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».

L’inattualità cui ci ha abituato Civica con le sue produzioni ormai è nota: tempi rarefatti, quasi sospesi in un tempo senza tempo, spazi scarnificati, recitazione essenziale. Eppure questo stile non si è fatto modo, né maniera: con Quaderno per l’inverno, ad esempio, Civica abbandona il clima rituale dell’Alcesti vista tre anni fa a Firenze, e assume toni comici, dolenti, divertiti.

Da qui nasce, scaturisce ferocemente quell’amarezza che, con sfrontata consapevolezza, aggredisce lo spettatore. Dietro una vicenda apparentemente lieve, quasi “assurda”, vi è lo schianto della solitudine, e il rimbombo aspro della fine, o della scomparsa, della poesia. Un quaderno per l’inverno è uno spettacolo doloroso, che svela disperazione dietro l’apparente leggerezza.

Si tratterebbe di entrare, ora, nel merito della vicenda, della trama, per capire meglio la storia – e rimando volentieri alle belle recensioni già apparse (ad esempio: qui Alessandro Iachino, qui Attilio Scarpellini, e qui Graziano Graziani) – e il perché di questa prospettiva eminentemente poetica, evocata dalla semplicità emozionale di un sacchetto di arance, tagliate e spremute in scena.

Foto D. Burberi

Eppure, pur restando aderente al dettato narrativo, Un quaderno per l’inverno si sgancia in fretta dalla dinamica verista per entrare a pieno titolo appunto della parabola, nella metafora, nella questione complessa e condivisa del senso dell’arte.

Oggi più che mai l’arte – tutta l’arte, e il teatro non fa certo eccezione – si sente pressata da un’esigenza di “senso”, ossia di commerciabilità, di redditività al pari di una qualsiasi impresa di produzione.

Con la cultura di deve mangiare, impongono i politici: altrimenti tanto vale metterci un bel crocione sopra. Civica e Pirozzi escono da questa legge, ne mostrano le conseguenze e i limiti procedendo per contrario, mostrando l’assurdo di imporre alla poesia un valore salvifico, un senso immediato e diretto, laddove potrebbe e dovrebbe essere il contrario. Il piccolo ladro Nino (bravo Luca Zacchini, ma avremmo preteso una lingua più nitida) e il professore (ottimo Alberto Astorri) discettano di fragili poesie che salvano la vita, finendo per parlare, così delle proprie esistenze e della vita, quella grande Vita che tutto e tutti prende.

Dal punto di vista della messainscena lo spettacolo è qui: il distillato di un dialogo di attori. Ma può bastare per evocare solitudini, sogni, fallimenti, aspirazioni: sussurrate come per caso, sottilmente, con un mezzo sorriso, quasi con timidezza.

Foto D. Burberi

Ecco allora il punto: la poesia non deve servire, proprio perché con la cultura non si mangia, come invece vorrebbero i soloni dell’opportunismo e del produttivismo a tutti i costi.

E su questi temi vale la pena citare, ancora, Milo De Angelis: «Cosa è dunque la poesia? Forse il suo destino abita nella punta di una matita, nella punta aguzza e fragile di questa matita. A questo foglio – la cosa più vulnerabile al mondo – noi affidiamo la nostra verità, la nostra ombra, il nostro segreto, la zona nascosta e ardente della nostra voce, la parte più essenziale della nostra vita. Dentro questo alfabeto, che tra qualche secolo forse non esisterà più, noi custodiamo ciò che di più caro e insostituibile ci è stato dato. Strano paradosso della poesia: puntare alla permanenza e farlo con i mezzi più poveri e antichi e indifesi: fuori dall’attualità, fuori dal commercio, fuori dall’economia, fuori da tutto, a volte anche fuori da se stessi…».

Un quaderno per l’inverno è un delicato “paradosso”: fare il teatro negandolo, parlare dei massimi sistemi aggirandoli, portare alla commozione sorridendo. Rivendicare la forza e la bellezza terribile della poesia mentre tutto attorno la rifiuta.

 

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