Teatro

Mario Biagini, Workcenter Grotowski: “nessuno è immune all’acqua in cui nuota”

21 Maggio 2020

Complici questi tempi dolorosamente faticosi, e le paradossali possibilità offerte dai social, ho avuto il piacere di scambiare idee e opinioni – o meglio di chiedere idee e opinioni – con artisti che stimo, che sono riferimento intellettuale, etico, creativo del nostro teatro. Punti di riferimento, proprio come bussole che ci indicano non tanto dove guardare, ma come guardare. Che ci spingono a riflettere continuamente, che affrontano la realtà e le sue contraddizioni non certo superficialmente, ma come invito alla profondità e alla complessità, sorprendendoci e spiazzandoci nelle nostre abitudini di pensiero.

Sono persone, sono teatri, sono luoghi dello studio teatrale, che funzionano come una volta funzionavano le stazioni di posta: quelle “locande” dove scendere e cambiare cavalli, dove appunto fermarsi un istante, dalle folli corse, per riflettere, pensare, nutrirsi, e poi riprende a galoppare. Tra queste “case”, naturalmente, c’è il Workcenter Grotowski and Thomas Richards, di Pontedera.

E punto di riferimento del Worcenter, Mario Biagini, con cui negli anni è nata una curiosa amicizia, che mi onora, è un interlocutore davvero attento e partecipe. Provo dunque a riassumere qui le mie brevi domande e le sue ampie, articolate, necessarie considerazioni.

E allora nella reclusione appena interrotta, nei lutti ancora da elaborare, nella confusione istituzionale e governativa, nella ristrettezza di prospettive e di visioni, aspettavo da giorni, forse settimane, le risposte di Mario Biagini: risposte che sono arrivate “dopo”, con il tempo necessario. E arrivano nell’adesso sospeso tra quanto è stato e quanto non è ancora.

«Carissimo Andrea, Scusami per il tempo che mi son preso per risponderti. In verità, non me lo sono preso – magari! È passato come passano le giornate e le notti in questo periodo. Piene di lavoro e vuote di tutto, vero? Un effetto probabile dell’impossibilità di inventarsi piani per un futuro imprevedibile. Lo è sempre, ma non lo sappiamo o non ce lo confessiamo; forse in condizioni normali è questa nostra dimenticanza quotidiana di tutto ciò che non possiamo calcolare in anticipo che ci rende capaci di gettarci verso un agire più o meno creativo. E poi, adesso, questa sorta di privazione sensoriale, intellettuale ed emotiva che ci ha risucchiato. Dici bene, siamo reclusi e soli. Siamo in lutto – amici che se ne sono andati, e folle di sconosciuti che soffrono. E anche non poter osservare il comportamento degli altri, per la strada, sull’autobus, al bar prendendo un caffè prima di andare a lavoro, ci tiene in una sorta di quaresima (un periodo in cui in passato era vietato agli attori fare il loro lavoro, come sappiamo), un digiuno non scelto, che crea confusione e difficoltà di concentrazione. Tuo figlio che cresce e cambia ti salva da questo deserto? Adesso ricominciamo a vedere gente, in strada, anche se i volti sono ancora mascherati, come in un carnevale a testa in giù, all’arrovescio. Ma mancano le prove in gruppo, e l’incontro professionale e umano con gli altri».

 

Jerzy Grotowski

 

Mi interrogo su Jerzy Grotowski, tuo e vostro maestro. Provo a immaginare. Aveva una certa “attitudine”, per usare un eufemismo, a svolgere la sua ricerca in modo appartato. Oggi, che siamo costretti a soggiornare, reclusi, nelle nostre case, viviamo una condizione di solitudine faticosa ma che potrebbe e dovrebbe essere anche foriera di ricerca e riflessione. Cosa avrebbe detto Grotowski di un simile stare?

«Mi chiedi di Grotowski, che cosa avrebbe pensato. La risposta onesta alla tua domanda è che non lo so, posso solo comparare e immaginare. E immagino che la sua risposta sarebbe stata radicale, come sempre. Posso dire tuttavia, senza alcun dubbio, che sua priorità assoluta sarebbe stata la salvaguardia della salute, propria e degli altri, a qualunque costo. Ne ho avuto molti esempi. In tutte le circostanze di lavoro, l’incolumità fisica e la salute di ognuno era per lui una condizione imprescindibile, che includeva anche le persone che venivano a visitarci e a vedere il nostro lavoro. Per quel che riguarda poi l’attitudine di Grotowski all’isolamento si devono distinguere, mi sembra, la sua personale necessità e i bisogni connessi alla natura di ciò che facevamo a quel tempo. Quella che in seguito è stata considerata una sua tendenza innata e caratteriale all’eremitaggio in realtà è apparsa nella sua vita solo negli anni ’80, ed era una scelta dettata, nello stato di fragilità fisica in cui si trovava, dalla necessità di un’economia rigorosa delle proprie forze, a sua volta legata alla volontà di realizzare certi traguardi. Era estremamente disciplinato, inamovibile, non c’erano eccezioni. Aveva bisogno di tempo per compiere quello che si era preposto. Siccome anche una piccola infezione gli sarebbe stata fatale, se uno di noi aveva 37.5 di temperatura, quarantena! Abbiamo a volte passato settimane chiusi in camera, a quel tempo, da soli, per non contagiare gli altri che poi a loro volta avrebbero contagiato lui. Tre giorni senza febbre erano la condizione necessaria per iniziare di nuovo a lavorare con gli altri o con lui. Ma questo tipo di quarantena, come costava a noi, giovani e vivaci, costava anche a lui. Un paio d’anni prima della sua morte mi chiese di cercargli un nuovo appartamento in affitto. Mi aveva posto alcune condizioni, una delle quali era che l’appartamento fosse a non più di cento passi (passi piccoli, specificò) da un bar con tavolini. Amava stare tra la gente, osservarla, toccare con i propri occhi la realtà storica e viva del momento, ed era un osservatore eccezionale. Diceva che per sapere che cosa succede nel mondo è meglio guardare la gente per la strada che non comprare i giornali (che però leggeva ogni giorno, dalla prima fino all’ultima pagina). D’altro canto, l’isolamento dei primi anni del nostro lavoro aveva ragioni diverse, organiche e profonde, legate proprio alla natura di quel che facevamo. È una storia lunga, descritta altrove, per esempio nel primo libro di Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, (Ubulibri, 1993), e non c’è bisogno di parlarne qui. In certi periodi, ancora oggi, abbiano bisogno di momenti e fasi in cui ci ritroviamo solo tra noi, anche se con modalità diverse da quelle di un tempo. Ma c’è da dire che, a un certo punto, Grotowski stesso iniziò letteralmente a spedirci in giro, in modo discreto, anonimo, chiedendoci di andare a vedere che cosa succedeva nel mondo del teatro per poi tornare a raccontarglielo. E poi prese a incoraggiarci a non aver timore di pensare altri modi, a non censurare tentazioni e desideri. E questo ci ha permesso di scoprire orizzonti diversi, modalità sempre nuove, fino ad arrivare alle nostre attività di oggi, così diversificate, e a viaggiare e agire in così tanti contesti, in tutto il mondo. Credimi, Grotowski non era eremita per indole. Non a caso iniziò la sua attività pubblica nella sfera politica. E poi continuò con il teatro. Credo che si sia sempre interessato, in campi diversi e in diversi modi, all’essere umano in senso politico ed ecologico, il che vale a dire considerandolo come essenzialmente costituito da relazioni – con altri esseri umani, certo, ma anche con la natura di cui è parte integrante, intesa essa stessa come qualcosa di più della somma delle relazioni fisiche e biologiche che possiamo studiare analiticamente. L’interesse di Grotowski per le leggi che regolano il comportamento le potenzialità dell’individuo e della comunità era anche uno studio della natura e del cosmo. Mi sembra che alcune sue riflessioni siano stimoli potenti e molto attuali per il periodo in cui viviamo, soprattutto i testi relativi al parateatro e al Teatro delle Fonti curati recentemente da Carla Pollastrelli (nella bella raccolta Testi, 1954-1998, III Volume, Oltre il teatro, La Casa Usher, 2016). Sicuramente nelle circostanze attuali avrebbe avuto materiale interessante di osservazione. Mi mancano la sua voce e la sorpresa che creavano in me le conclusioni a cui giungeva, spesso accompagnate da una risata. Mi mancano specialmente in quest’epoca, in cui ognuno di noi sembra sapere tutto su tutto, e ognuno di noi è prigioniero di pensieri che spesso non sono pensieri, ma citazioni e frammenti confusi di pensieri altrui, che a loro volta non sono affatto pensieri. In che prigione viviamo, ben più soffocante delle mura del mio appartamento… È raro, straordinario, produrre un pensiero proprio, non mutuato da altri: un pensiero creativo. D’altronde è stata questa sua capacità di pensare liberamente e autonomamente a permettergli di esplorare territori sempre nuovi».

E tu come stai vivendo, come hai vissuto, questa situazione?

«Per quel che mi concerne, penso di vivere questa situazione più o meno come tutti. Ognuno di noi ha poco di speciale, a ben vedere. Come tutti, immagino, aspetto il momento di cominciare di nuovo a lavorare per davvero con i colleghi, i compagni, gli sconosciuti, gli amici. Nel frattempo, tra lutti e incertezze, mi preparo. Strana cosa, prepararsi all’imprevedibile. Ma così è. Viene certo da pensare che dobbiamo prendere queste circostanze come un’opportunità, ma non mi riesce vederla in questo modo, sapendo che ci sono stati e continuano a esserci sofferenze e lutti. Ogni giorno ricevo notizie da amici, italiani e di molti altri paesi; molti soffrono o conoscono qualcuno che soffre, sovente in modo stupidamente inutile, per la mancanza assoluta di lungimiranza e senso di un bene comune. Sapevamo già di vivere in tempi di ignoranza e di interessi meschini. Adesso vediamo come questa nostra bassezza sia causa evidente di ingiustizia e patimento. E dico nostra perché nessuno di noi è immune, nessuno è separato dall’era in cui vive, come e più di un pesce nell’acqua. Il fatto di accorgersene non ci rende immediatamente diversi dagli altri. Se cerchiamo di fare il nostro mestiere in modo onesto, senza sentirci migliori per il semplice fatto di fare qualcosa che pochi altri su questo pianeta possono permettersi (cioè fare quello che amiamo), forse abbiamo a disposizione possibilità di coscienza e di azione che altri non hanno, e che dunque esigono una presa di posizione, di azione e parola che siano al contempo professionali, etiche e politiche. Il mondo dopo la quarantena non sarà meglio di quello di prima, e forse non sarà peggio. Noi stessi non saremo migliori e non saremo peggiori. Siamo quello che siamo. Forse niente sarà diverso, eccetto che il vivere che conoscevamo dovrà fare i conti col non essere più cosi assolutamente estraneo al vivere in altre regioni dove la vita vale ben poco, e dove è pericoloso uscire di casa o da sotto una zanzariera. Per molti anni siamo vissuti in un lusso che pensavamo normale. Dovutoci. Nostro diritto. Questo mondo protetto ci ha permesso ci considerarci speciali. E, ad alcuni di noi, di dedicarci ad attività che soddisfacevano le nostre aspirazioni, almeno in parte, a volte forse solo offrendoci surrogati di pienezza. Penso che potremmo ripensare tutto questo, con ardore e serietà, con lo stesso ardore e serietà che ci fanno desiderare la riapertura degli spazi pubblici a cui è destinato il nostro lavoro. Dovremo e dobbiamo ripensare gli spazi. Ma per fare che cosa, in questi spazi diversi e con rituali sociali modificati esternamente da protocolli? Le stesse cose che facevamo prima? E perché, per chi, per che cosa? Ho sempre guardato al mondo del teatro come a un orizzonte che unisce attività assolutamente diverse, e non ho mai pensato che una posizione specifica sulla linea di questo orizzonte fosse migliore o peggiore di un’altra; che uno spettacolo di Broadway fosse da meno del work in progress di un gruppo di ricerca o di uno spettacolo destinato a pochi spettatori informati e ben educati. O che il proprio manifesto o dichiarazione di intenti bastassero a qualificare di per sé ciò che si fa. Sai, forse sono all’antica, ma penso che ciò che chiamiamo arte debba avere un’utilità, sì, debba servire qualcosa o qualcuno. Chissà, forse tutto ciò che sta succedendo sarà una scossa per alcuni, un risvegliasi da un comodo sonno, una botta che ci spinga verso vere domande. Cerco di seguire il dibattito che viene sviluppandosi online tra molti colleghi e gruppi sul futuro del nostro mestiere, e sono felice della passione che sento in questa discussione, e delle tante idee che vengono messe in comune. Di sicuro è il momento di abbandonare rivalità e competizione, se c’erano, e scoprire una solidarietà, un mutuo soccorso, tra lavoratori dello spettacolo ma anche tra cittadini, tra classi diverse (parlo ancora da comunista, non mi passa…), e di pensare alle funzioni, se esistono, che il nostro mestiere può e deve assolvere. Osservo le scelte delle autorità per quel che riguarda il mondo dello spettacolo, e non sono sorpreso dalla differenza di posizioni tra Italia e, per esempio, Francia o Germania. Sono convinto che la classe politica di un paese sia il riflesso diretto della società che la produce. Il riguardo in cui è tenuto il teatro nella società italiana è purtroppo lo stesso in cui vengono tenute l’educazione dei cittadini dall’infanzia fino e oltre l’età adulta, la letteratura, la storia, la filosofia, la storia dell’arte, la storia del pensiero, il pensiero stesso e la scienza, da decenni. Ne vediamo i risultati drammatici. E anche per quel che riguarda questa situazione nazionale, devo ripetermi e dire che nessuno di noi è immune all’acqua in cui nuota».

 

Mario Biagini

Però pensiamo a vostro teatro: il Workcenter è incontro, viaggio, pedagogia, riflessione individuale e collettiva. Come cambierà, se cambierà, lo scenario in futuro? La pandemia di CoronaVirus quanto e come segnerà la pratica e la pedagogia teatrale, per il momento delegata al web?

«Credo il nostro mestiere viva di pluralità e che tutti debbano avere opportunità ed essere tenuti in reale considerazione, pena la morte del teatro stesso. Definirmi artista? Ho sempre avvertito disagio nell’usare questa parola, e le poche volte che la sento pronunciare nella vita vivente è in viaggio, quando un vicino, durante la conversazione che si fa per passare il tempo, mi dice: “certo, si vede che lei è un artista”, e so che lo dice perché sono un po’ spettinato, la mia camicia un po’ stropicciata, le mie parole un po’ inusuali. Penso sia il momento di trovare un’alternativa, far scoppiare la dicotomia tra il mondo dei pochi (che sono relativamente tanti) della ricerca teatrale e il mondo dei tanti (che sono relativamente pochi) delle realtà più rivolte alla produzione in senso stretto, e aprire la strada a un rinnovamento che investa mondi e modi diversi, una vocazione civile di autoeducazione permanente al pensiero, alla sensibilità e al rispetto del bello e del vero. A differenza del termine “artista” uso queste due parole senza vergogna. Istituzionalmente, per una serie di combinazioni, il Workcenter fa parte adesso di un teatro nazionale, la Fondazione Teatro della Toscana. Siamo coscienti di trovarci, in paragone con altri, in una situazione privilegiata, che ci permette di continuare la nostra ricerca e creare opportunità di incontro e di partecipazione nel mondo intero, impegnandoci al contempo nello sviluppo di pratiche virtuose e di cofinanziamento. La situazione attuale evidentemente pone questioni così radicali che ci troviamo di fronte alla necessità di una rimodulazione legislativa anch’essa radicale, che tenga in considerazione un panorama di istanze necessariamente diverse, ricco a causa di queste diversità, che non deve risolversi né in polarizzazione né in esclusione. Necessitiamo di una legislazione intelligente e di una classe politica che tengano conto di questi universi, ne apprezzino la ragione e il senso, e ne sostengano l’esistenza. Di più: la società in cui viviamo, e le istituzioni che ne sono il prodotto nella storia dovrebbero intendere e vivere il mondo della cultura come un vasto campo di competenze diverse tra loro seppur convergenti, trasmesse e rinnovate ogni giorno, che ci permettono di elevarci a una vera sensibilità solidale e aperta. In questo senso, noi stessi dovremmo costantemente educarci a pensare questa cultura in modo non parcellizzato e diviso: un ricchissimo insieme di fenomeni invisibilmente legati tra loro dove esiste una continuità operativa e collaborativa di obbiettivi tra il nostro mestiere e altri contesti, formali e informali, che pur non facendo parte dell’ambiente strettamente teatrale nutrono la vita in comune del cittadino europeo e del mondo. Ma che fare in un’Italia che per decenni si è nutrita alla fonte inesauribile di egoismo e volgarità propugnati con godimento di tanti e profitto di pochi dalle reti televisive private? Noi tutti siamo figli di questo paese».

Di fatto, dolorosamente, questa emergenza è servita anche come scandaglio dell’animo umano. Cosa può fare il teatro per ridare forza e calore al singolo e alla società?

«Giustamente, caro Andrea, parli di ridare forza e calore all’individuo e alla società. Non possiamo permetterci di avere paura di destinarci a traguardi troppo alti o lontani o difficili. Ciò da cui dobbiamo tentar di guardarci è l’illusione, e l’autocompiacimento, soprattutto in tempi difficili. Anche a noi stessi dobbiamo dare forza e calore, e discernimento e rispetto. Una cosa di cui non sento parlare molto, nel dibattito vivo e intelligente che cerco di seguire, sono le prove, cioè un elemento importante del nostro mestiere, almeno fin dall’inizio del teatro come lo intendiamo oggi (non mi riferisco ai Greci con la loro misteriosa tragedia, di cui nulla davvero sappiamo, ma al teatro borghese moderno). Le prove, oltre a essere il momento iniziale della scoperta del nuovo spettacolo, che poi troverà il suo vero corpo nell’incontro pubblico, hanno rappresentato e rappresentano la possibilità di uno studio condiviso tra attori e regista; possono cioè essere il terreno di una educazione individuale e interpersonale a se stessi, al presente e al prossimo, avendo rimpiazzato altre forme sociali di sviluppo dell’individuo con gli altri che avevano evidentemente fatto il loro tempo. Questa visione delle prove è stata ed è forte e ancora non ha perduto il suo significato, se intendiamo le prove come destinate a una ricerca tenace di contenuti che rovesci come un guanto forme già stanche e già viste, anche quelle cosiddette contemporanee, inventando vie nuove di incontro. Ma affinché davvero si torni a respirare, e respirare questa volta un’aria fresca e non stantia, è necessaria anche una ricerca attiva di quale sia la società alla quale vogliamo rivolgerci e con la quale dialogare, di chi sia il pubblico di questo mondo in trasformazione. Sarà lo stesso di prima? Gli stessi spettatori, le stesse persone, gli stessi salotti, gli stessi amici, la stessa aria familiare di prima? Immagino che molti di noi, durante le prove, abbiano in mente una certa spettatrice o un certo spettatore. Chi è la persona a cui ci rivolgiamo? Si sa, ci trasformiamo a seconda del nostro interlocutore. Se gli attori saranno gli stessi lo saranno anche gli spettatori. Mi si dirà che va bene così. Una dozzina di anni fa fui invitato alla prima della messa in scena del testo di un amico al Vieux Colombier, un teatro bellissimo, e con quale storia! Arrivato in sala mi accorsi che conoscevo per lo meno metà del pubblico presente. Vero, non è una platea enorme, ma il fatto mi colpì come il sintomo di un mondo ripiegato su se stesso, che mi stava già stretto da tempo, mi resi conto. Per questo all’epoca sentii il bisogno di un altro lavoro, e iniziò l’Open Program. Questa necessità non ha cessato di pungolarmi, oggi più che mai».

 

Il Workcenter Grotowski

 

Cosa avverti dal resto del mondo? Cosa ti raccontano i vostri colleghi attori? Cosa accade fuori dall’Italia?

«Scrivendoti, mi rendo conto di sentirmi dalla parte del “sole calante”. Eppure, quanta curiosità sento ancora nei confronti del mondo di cui faccio parte. Ho, abbiamo avuto tante fortune, siamo vissuti in pace assoluta, al paragone di altri posti del mondo. Opportunità, incontri, orizzonti che sembravano destinati a un’espansione senza fine. Ora, e da tempo, ciò che è nuovo sul serio sta preparandosi altrove – non dove ce lo aspettiamo. Mi chiedi che notizie ricevo dal resto dal mondo, che cosa accada. Sento che ovunque esistono paura e angoscia e sofferenza, e non solo a causa del virus. Ma in certi paesi, anche sul nostro continente che necessita di lingue nuove come un malato necessita di una trasfusione di sangue, o come una coppia può essere rinnovata dall’arrivo di un bimbo, vedo negli sguardi dei giovani una scintilla volta al futuro, che riconosco ma che non riesco a tradurre nella mia lingua al tramonto; vedo la stessa speranza negli occhi e nei passi di molti stranieri residenti in Italia, e cerco come ciò che ho avuto la fortuna di sperimentare e studiare e provare possa servire ad aprire spazi, allargare frontiere, abbattere muri, aprire finestre. Ricevo tanti segnali, da pianeti diversi. Tra le grandi istituzioni teatrali, vedo per esempio lungimiranza nel programma del Théâtre de la Ville di Parigi e nella direzione di Emmanuel Demarcy-Motta. Ma da contesti assolutamente diversi, da colleghi che vivono momenti assolutamente tragici, come in Brasile o nel Bronx di New York, ricevo segnali di tenacia e speranza: ci si prepara, si studiano modi, ci si tiene in contatto, si inventano modalità di produzione volte al futuro, si cercano significati e funzioni. Si vive. Da altri colleghi che vivono in situazioni relativamente meno difficili, come in Turchia, ricevo offerte generose, inviti, invenzioni. E tutto questo mi nutre e mi dà speranza, a me solitamente così pessimista. Il lockdown ha trovato me e i miei colleghi distribuiti negli appartamenti che alcuni di noi condividono, come isole di un piccolo arcipelago, e questo ci ha permesso di continuare a creare e provare a gruppetti di due o tre persone, ognuno a casa propria, a immaginarci teatralmente soluzioni nuove a nuove circostanze. Nel nostro piccolo, e per dirla in poche parole, cerchiamo come possa apparire una nuova forma di “attore” che non sia il centro magnetico dell’attenzione, che non invada lo spazio come un conquistatore, ma sia piuttosto il catalizzatore di una sensibilità diffusa, più vasta, che abbracci l’orizzonte e la profondità vertiginosa e calma del cielo, all’aperto, in questo grande mondo in cui stiamo per rimettere piede. E poi, studiamo. I miei colleghi hanno iniziato a creare materiali per un nuovo lavoro, a casa loro. Anche io studio, poesia e metrica, ogni giorno, e sperimento come la metrica metta in forma assieme respiro, corpo e pensiero. Cerco di tenere il cervello allenato… Non voglio annoiarti con le varie attività che riempiono le nostre giornate: sviluppo artistico di materiali nuovi su cui avevamo iniziato a lavorare in età pre-virus, riflessione intellettuale e scrittura, tra noi e con altri, vicini e lontani, lettura di autori che già conoscevamo e assolutamente nuovi, a cui rispondiamo praticamente con la creazione di azioni e la composizione di musiche nuove, progettazione per il futuro su come agire in Italia e all’estero, con tanti altri colleghi, strategie di sopravvivenza e solidarietà, modi di tenere il corpo vivo e fluido, e in forze e in salute; e poi, anche, la ricerca di momenti in cui si possa essere svegli e lucidi, sì, ma calmi, senza cadere in un’attività frenetica e cieca. Aprire spazi, ho scritto. Vuol dire: sbloccare i desideri, dissolvere le nevrosi, scongelare le parole. Attori, danzatori, cantanti, son sempre stati gente appassionata e tenace, anche nei secoli in cui non erano tenuti in grande considerazione. Se quello che ci spinge è forte abbastanza, troveremo modi per rispondere alla sete che ci motiva, sebbene in circostanze difficili. Il successo o meno delle nostre imprese non conta poi così tanto. Quello che conta è che ne sia valsa la pena».

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