Teatro

Mariella Fabbris, il cibo angelico del teatro

8 Settembre 2020

Come una madre. O una sorella. Quando entra in scena l’attrice Mariella Fabbris è un tornado familiare. L’impeto mescolato alla dolcezza. Così rapisce e porta via gli spettatori, facendone scomparire le tracce; per incanto soffitti e pareti svaniscono e siepi e fascine si scavalcano per salire su in montagna dove volano acciughe felici oppure, si plana dentro chiostri odorosi di erbe, finendo tra pennuti angelici. Le storie provengono dalle pagine di Tabucchi e Orengo _ che hanno omaggiato l’artista con due racconti preziosi _ con l’invito a riscoprire le cose buone e semplici. Reimparando magari ciò che è stato dimenticato nel rapporto con la natura. Lettere, poesia, teatro. E cucina. Del cibo spunta in tavolate imbandite, nella stessa scena in cui l’attrice racconta, controllando allo stesso tempo la temperatura dell’acqua: sono happening coinvolgenti, tenuti preferibilmente in luoghi non convenzionalmente teatrali come case e giardini, dove scorre la vita di tutti i giorni. Un pugno di spettatori e un tuffo dentro universi da favola solleticati dai profumi delle pietanze. Gnocchi al Nord, acciughe al Sud. Patate e farina lavorate assieme e condite con quattro sughi diversi nella terra del Prosecco, acciughe declinate in mille modi, a cominciare dalla voluttuosa bagna cauda in cascine piemontesi fino ad incontrare gli aromi forti della Sardegna. E poi i fagioli, bianchi di Spagna o Corona conditi con buon olio d’oliva e… ma questo però è nel prossimo spettacolo dedicato a Steinbeck che deve ancora debuttare.

Mariella Fabbris mentre prepara gli gnocchi per il “Cibo Angelico” ispirato da un racconto di Tabucchi

Non è un itinerario gastronomico e turistico. Anche se forse potrebbe diventarlo. In realtà è il percorso quotidiano d’arte e di vita di Mariella Fabbris, teatrante dolce e solida e che conosce e vive il teatro come luogo dell’incontro, ma anche di condivisione. Qui si pratica un tratto di strada comune per poi separarsi e ritrovarsi ancora. Il suo è il neverending tour di una attrice di talento, epigone di una importante esperienza della sperimentazione italiana nata a cavallo degli anni Ottanta e Novanta nella banlieu grigia e operaia di Torino. A Settimo Torinese, in un ex cinema a luci rosse intitolato all’Eroe dei Due mondi e ribattezzato Garybaldi, in onore del Cooper americano. Lì dentro prese vita il Teatro Laboratorio Settimo, compagnia che segnò in modo emblematico la scena di quel tempo con spettacoli indimenticabili. Allestimenti preziosi, densi e ricercati, costruiti con cura maniacale. Fatti di accattivanti colonne sonore, geniali macchinerie e luci: diaboliche e sfavillanti si accendevano come in un sogno, grazie ad autodidatti diventati virtuosi della scena da Lucio Diana a Roberto Tarasco. E poi Gabriele Vacis che firmava le regie di un lavoro il cui imprinting era comunque collettivo, di gruppo. E, ovviamente, last but not least,un’arte dell’attore che aveva il cuore forte al femminile con la solida presenza di Adriana Zamboni, Lucilla Giagnoni, Laura Curino e, ovviamente, Mariella Fabbris.

La rappresentazione di “Cibo Angelico” svoltasi qualche sera fa nelle campagne di Valdobbiadene

Assieme hanno donato spettacoli indimenticabili. Da “Signorine” che nel 1983 sancì il successo nazionale (ma prima c’erano stati “Mi ami?” del 1978, “Citrosodina” e “Verso la gloria” del 1981) ad altri più complessi come, solo per citarne alcuni, “Esercizi sulle tavole di Mendeleev” (1984) “Elementi di struttura del sentimento” (1985), “Riso Amaro” (1987) e tanti altri ancora via via fino ad “Affinità elettive” (1992), la “Villeggiatura” da Goldoni del 1993 ma soprattutto “Stabat Mater” (1989). Un giorno però questo ensemble assolutamente unico decise di “suicidarsi” e chiudere l’attività. Diverse, e forse per chi osservava da fuori poco comprensibili, apparirono le motivazioni, molte legate purtroppo alla sfera economica, altre di natura privata (nel 2002 la cooperativa Teatro Settimo venne acquistata dallo Stabile di Torino). Ognuno dei fondatori, dopo aver scritto un pezzo importante del contemporaneo italiano, decise di intraprendere la propria e personale strada. Mariella Fabbris, piemontese con radici venete e calabresi, teatrante sanguigna restò nel suo territorio. E lo presiede tuttora lavorando su complessi progetti di ricerca. Un impegno costruito in laboratori che coinvolgono uomini e donne con storie comuni di fabbrica e vita di periferia, spesso trasformati in spettacolo. Una “ricerca/attrice” che porta in superficie radici sommerse e patrimoni dimenticati di memoria. Parallelamente continua a interpretare pieces e film, montando allestimenti in solitaria in cui applica _ costruendo una propria teatralità, _quella che è stata la matrice, o il format iniziale, di “Stabat Mater” originale sperimentazione del fu Teatro Settimo. Una modalità spettacolare in largo anticipo rispetto a quella di narrazione che da lì a qualche anno avrebbe invaso a ondate continue i palcoscenici nazionali. Quello di “Stabat Mater” era il teatro casa per casa dove c’era “la volontà di raccontare ma anche di raccogliere storie” (vedi ”Stabat Mater. Viaggio alle fonti del teatro di narrazione” di Gerardo Guccini e Michela Marelli per Le Ariette Libri, 2004).

L’attrice Mariella Fabbris prepara gli gnocchi per un grosso pubblico assieme al figlio Gioele, un autentico chef.

Esperienza unica di pratica teatrale. Si aveva a che fare “con un pubblico non abituato al teatro, in un ambiente non convenzionale: stanze, cucine, stalle _ anche se nelle ultime repliche dice Mariella lo facevamo anche nei teatri _ ma teatri a Budapest, in Romania, in Bulgaria: era appena finita l’era comunista, vedevi i negozi vuoti, non c’era niente da mangiare ma i teatri erano pieni di umanità, gente commossa. Una prova continua, un verificare a braccio con chi eri e come dovevi agire”. Questo è il cuore di un viaggio che tuttora prosegue in solitario con appuntamenti in tutta Italia, dal Nord al Sud, isole comprese, dove Fabbris è chiamata ad allestire i suoi lavori da parte di associazioni, compagnie teatrali, gruppi di singoli cittadini. Allo stesso modo con cui si riprendevano atmosfere dai “romanzi di Garcia Marquez, Borges, Isabelle Allende e Clarice Lispector” Fabbris piglia libera ispirazione da due racconti per due spettacoli. Il primo, “Cibo angelico”, viene da un testo di Antonio Tabucchi (“I volatili del Beato Angelico”, edizioni Sellerio) e l’altro, “L’albero delle acciughe”, appartiene invece a un racconto di Nico Orengo (“Il salto dell’acciuga” edito da Einaudi).

Un momento di “L’albero delle acciughe” ispirato da un racconto di Nico Orengo e presentato a Cagliari nello spazio dell’Aquilone di Viviana

In queste due perle l’attrice di Settimo ha affinato una sapienza rara e un po’ dimenticata nel Belpaese, ma che risale al tempo della Commedia dell’Arte: il teatro hic et nunc, qui e ora, casa per casa, in un rapporto ravvicinato con chi osserva e, a un certo momento cessa di essere poltrona per diventare spettatore attivo. Un teatro fatto di tantissimi luoghi del divenire. Sono case di ringhiera o cascine di campagna, dove l’odore del fieno si mescola a quello dei fiori, i profumi delle piante aromatiche alle botti del vino in cantina. Sono anguste sale da pranzo di città, circoli di periferia torinese o antiche corti veneziane, terrazze napoletane luminose che guardano il mare e il Vesuvio. Mariella Fabbris volta per volta, seleziona i luoghi e il menù da abbinare a quello della poesia. Seguendo la lezione di Peter Brook per il quale il teatro non è qualcosa che sta aldilà della vita stessa ma possiede dentro di sé il concetto stesso di umanità. Qualunque esso sia e dove risieda, è innanzitutto incontro con altri essere umani, prima che spettatori. Il passepartout per aprire i cuori sono storie che sfiorano il fantastico. Quelle inventate dagli scrittori. Ecco in “I volatili del Beato Angelico” di Tabucchi il racconto del fraticello Giovanni da Fiesole che nell’orto del chiostro del convento un bel giorno arrivano buffe creature, volatili dal volto umano che non sanno camminare e calando a volo radente finoscono per incastrarsi tra i rami degli alberi. Con loro il fraticello dialoga: una fitta, incredibile conversazione. Angeli o creature piuttosto simili ai pensieri di una fertile immaginazione, fonte di ispirazione poi degli affreschi del pittore.

Mariella Fabbris in un momento de “L’albero delle acciughe” in una terrazza di Napoli che guarda il Vesuvio (Foto Francesco Escalona)

Nel racconto di Fabbris (così come lo ha appena presentato a Valdobbiadene “dove _ dice l’attrice _ c’è il vino più buono del mondo”) il fraticello si sovrappone all’immagine della nonna paterna Pasqualina anche lei nel suo orto eroina di un incontro con fantastiche creature alate e da cui l’attrice ha appreso la ricetta degli gnocchi da profumare con il basilico e altri sughi, e che, alla fine della storia si gusteranno liberamente come una sorta di rituale catartico. Accade così pure nell’”Albero delle acciughe” liberamente ripreso dal racconto di Nico Orengo “Il salto dell’acciuga” visto di recente nello spazio Osc della compagnia Aquilone di Viviana a Cagliari. Qui l’attrice prende per mano chi ascolta e lo infila dentro un vorticoso tourbillon. Dal mare si vola su per i monti e si torna nella pianura. Nascoste in mezzo al sale sui carri dei contrabbandieri le aggiughe arrivano sulle tavole dei contadini per finire condite in modi diversi. Quindi una “putina” che nel suo viaggio incontra “storie antiche, personaggi, mestieri e luoghi che la legano al Mediterraneo, al mondo. Un acciugaio, un salinatore, un vignaiuolo, una contrabbandiera…”. E alla fine la condivisione. Dodici pietanze diverse come i mesi dell’anno. Dai crostini burro e acciughe ai pesci conditi con il limone e il prezzemolo, la cipolla e il pomodoro, il finocchietto selvatico, le patate e i peperoni, le nocciole, il sedano, il cavolo… Mariella Fabbris maestra di cerimonie è così ospite e sensale: dipana il filo invisibile che lega assieme coloro che assistono e il mondo narrato, la vita di tutti i giorni e i sogni nascosti. Suscita il riso e l’ilarità in modo giocoso, commuove mirando sempre dritto al cuore. Performer vera, che ha raccolto lungo il suo cammino cento e cento storie: e ogni giorno le restituisce per vie inattese. Una battuta, un lazzo, un ricordo, un’ombra che segna una ruga d’amarezza sul viso ed un sorriso.

Mariella Fabbris offre una foglia di basilico a una spettatrice durante la rappresentazione dello spettacolo “Cibo Angelico”

Per capire ancora meglio il senso di questo lavoro quotidiano è consigliabile leggere il libro di Laura Bevione appena pubblicato presso Cue Press, “Nelle case, nelle fabbriche, in scena. Il teatro fatto a mano di Mariella Fabbris”. Una sorta di diario di bordo contenente anche la riproduzione di commenti raccolti dopo decine e decine di spettacoli, disegni e fotografie. Dopo essere stata in scena poche sere fa nel quartiere della Giudecca a Venezia in due differenti appuntamenti, Mariella Fabbris sarà ospite a Mantova del festival teatrale della valle dell’Oglio “Odissea” l’11e il 12 settembre, curato da Piccolo Parallelo. Presenterà “Regina, Memoria d’acqua” con la pianista Ilaria Schettini, presso la Fattoria Le Bine, Riserva Naturale l’11 e il giorno dopo si racconterà nel corso di una passeggiata agli argini del fiume Oglio. Dal 16 al 23 si sposterà a Roma dove terrà due performance nell’agriturismo “Cobra” alle porte della Capitale. Dal 23 al 30 diverse sono infine le repliche che terrà tra Napoli e Pozzuoli. E poi si torna all’estero, dove Fabbris è stata accolta a braccia a perte. A cominciare dalla casa del Theatre du Soleil di Ariane Mouckine a Parigi, e poi Lisbona, Liegi, Bruxelles, New York, Buenos Aires, Santiago del Chile, Melbourne e Teheran. Per assistere a uno spettacolo di Mariella Fabbris, tenere d’occhio i canali dei social media prestando attenzione al tam tam sugli eventi. Questo è un teatro che gira sul serio. Senza scambi e favori. Vero, imperdibile, teatro fatto a mano.

Mariella Fabbris e gli spettatori dell’agriturismo Ai Conti della Serva di Torino al termine della messa in scena di “Cibo angelico”
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