Teatro
Mare Nero, storie di migrazioni in scena. Intervista al regista Daniele Salvo
Un palcoscenico, un gruppo di persone, la platea: in scena il dramma quotidiano del nostro mare, quello di chi, lasciando il proprio paese, affida la sua vita a uno scafo di fortuna, con la speranza di una vita migliore. Una speranza che per tanti non porta a un lieto fine, ma si spegne nel cuore del Mediterraneo. Storie come tante fra quelle che ogni giorno passano – in una sostanziale indifferenza – sugli schermi dei nostri televisori e computer e che Nove teatro ha deciso di raccontare, per la regia di Daniele Salvo, in Mare Nero di Gianni Paris. Un percorso di consapevolezza e attenzione verso un tema troppo spesso banalizzato, in un dibattito polarizzato fra accoglienza e respingimento, a discapito delle domande fondamentali e ultime sulla comune umanità che unisce i popoli al di qua e al di là del mare. Abbiamo intervistato, subito dopo il debutto di questo fine settimana al teatro Pedrazzoli di Fabbrico, il regista Daniele Salvo.
Partiamo dall’inizio: da dove nasce l’esigenza di affrontare, in scena, un tema tanto attuale e tanto delicato come quello delle migrazioni contemporanee?
Sono convinto che l’arte sia uno strumento potente per l’elevazione spirituale dell’animo umano. Il teatro ha una possibilità unica: può affrontare argomenti complessi e ha il dovere di trattare e ridiscutere la contemporaneità. L’argomento delle migrazioni contemporanee nella nostra realtà quotidiana di telegiornali, salotti televisivi e reality show, generalmente viene strumentalizzato e manipolato per fini politici e scopi elettorali. Ho provato un senso di disgusto e di ribellione in diverse occasioni di fronte alle deliranti dichiarazioni di alcuni politici che utilizzano questi argomenti per distrarre l’elettorato dai problemi reali del Paese. Il testo di Gianni Paris, molto potente, affronta invece l’argomento dal punto di vista umano e poetico. Gli uomini su quelle barche non sono diversi da noi. Come noi sognano, come noi ricordano, come noi amano, come noi piangono, come noi hanno famiglie, fratelli o sorelle lasciati nei loro luoghi di origine, madri abbandonate all’indigenza, figli che aspettano notizie, speranze di una vita migliore. In questo testo sconvolgente, visionario e non retorico, Gianni Paris tenta di toccare l’interiorità di questi uomini abbandonati a sé stessi. Il loro candore, la loro ingenuità, le loro aspettative affiorano in una realtà quasi surreale. Il viaggio verso le coste italiane diviene un viaggio mentale, onirico, una tragedia moderna, un confronto serrato con i fantasmi di ognuno di noi.
Qual è stato il percorso di preparazione a questo spettacolo?
È stato un lungo percorso di documentazione, visione di video sconvolgenti, studio della realtà libica attuale, colloqui con amici immigrati che hanno avuto un’esperienza diretta, studio degli accenti nordafricani, analisi del testo, studio della partitura sonora, ricerca di musiche etniche, studio delle intenzioni e delle accentazioni nella recitazione, studio delle vocalità e delle sonorità, così diverse dalle nostre. E’ stato fatto anche un lavoro di preparazione fisica e di training vocale molto approfondito. Questo percorso mi sarà di grande aiuto anche nell’affrontare il prossimo lavoro, in scena al Teatro Biondo di Palermo, “L’ ultima notte del Rai’s”, di Yasmina Khadra, riguardante la fuga e la morte di Muhammar Gheddafi nel deserto della Sirte e la nascita dello Stato Islamico. La sofferenza del popolo libico va oltre ogni immaginazione.
Il teatro ha sicuramente il grande potere di creare ponti emotivi, fra attori e pubblico, fra le esperienze narrate in scena e il quotidiano in cui viviamo immersi ogni giorno. Può essere uno strumento di “resistenza” rispetto ad un mondo che sembra aver dimenticato il valore ultimo dell’umanità?
Assolutamente sì. Credo che il teatro sia una delle ultime roccaforti di “resistenza”. Viviamo in una realtà globalizzata, siamo anestetizzati, cinici, disillusi, abbiamo perduto la nostra umanità, abbiamo perduto la tenerezza, il candore, l’innocenza, il senso della solidarietà, la coesione, la dolcezza. La Poesia viene derisa ed è divenuta inutile in un mondo votato al pragmatismo e al facile successo. La volgarità e la mancanza di empatia sono all’ordine del giorno. Questo succede nella realtà quotidiana ma anche tra teatranti. Il teatro italiano è divenuto un luogo di livori, frustrazioni, ripicche, finti consensi e dissensi, compravendite politiche e cinismo distruttivo ed è davvero difficile incontrare qualcuno che abbia preoccupazioni artistiche e non faccia questo lavoro per altri motivi. L’Artista, generalmente, affoga nella solitudine e nell’isolamento, il Politico trionfa. Tutto ciò è molto triste. Non è così in altri Paesi. Continuo a perseguire il sogno, la Poesia, l’illusione, la tenerezza, la forza della dolcezza e l’Utopia e credo fortemente che il Teatro sia un luogo privilegiato per tutto questo. In teatro si possono creare altri mondi, è possibile frequentare il Futuro e il Passato con meraviglia e stupore assoluto.
Le nostre giornate sono spesso segnate da notizie tragiche provenienti dal mare, ma allo stesso tempo da un crescente razzismo e dal desiderio, da parte di molti, di alzare muri che possano dividere un “noi” dagli “altri”. Culturalmente viviamo scissi fra un atteggiamento di umana pietà e un altro, che spesso trova maggiore spazio, di chiusura e rifiuto. Quali sono state le difficoltà maggiori riscontrate nel mettere in scena un argomento così divisivo?
Sono state molte le difficoltà e so già che questo sarà uno spettacolo di non facile circuitazione. Molte persone ci hanno detto: “Non verrò a vedere questo lavoro perché non sono d’accordo”. Rimango sbalordito di fronte a queste frasi. Non capisco. O forse capisco fin troppo bene. Le ragioni politiche prevaricano la sensibilità e la ragionevolezza. I cittadini italiani, grazie al cielo non tutti, irretiti dagli imbonitori contemporanei, istigati ad un sentimento di razzismo diffuso, hanno dimenticato che sono stati essi stessi migranti nel dopoguerra, in Italia, in Argentina, negli Stati Uniti, hanno dimenticato che venivano trattati allo stesso modo, definiti “diversi”, “sporchi”, “sgraditi” se non con epiteti ben peggiori. Il razzismo, in ogni sua forma, definisce il livello culturale di un popolo ed è un sentimento deplorevole. Credo che molti italiani non si siano ancora accorti di essere trattati non come esseri umani, ma esclusivamente come potenziali elettori. Ma purtroppo questo è ormai un problema mondiale. L’uomo di oggi è stato irrimediabilmente trasformato in merce. Ricordando le parole di Pier Paolo Pasolini: “ Il razzismo è il cancro morale dell’uomo moderno, e come il cancro, ha infinite forme. È l’odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. È l’odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l’ordine borghese. Guai a chi è diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti. Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei. È così che riscoppia la crisi, l’eterna crisi latente.” Questa crisi ci rende tutti manipolabili, fragili, pronti all’odio del diverso e alla diffidenza per tutto ciò che è sconosciuto.
Una domanda più di carattere generale: in uno scenario come quello descritto fin ora, come può (se può) la cultura, diventare fattore generativo e di stimolo per un’integrazione capace di andare oltre la semplice accoglienza (spesso tacciata di buonismo) e la pratica di una tolleranza che è tale più nelle parole che nei fatti?
Intanto si dovrebbe superare l’idea di una cultura di destra o di sinistra. La cultura è cultura e non dovrebbe essere patrimonio di alcuna parte politica. La cultura, quella vera, apre le porte, rende l’uomo più libero, ci avvicina alle stelle, ci permette di viaggiare nello spazio e lassù non c’è diversità o parte politica che tenga. La politica nel nostro Paese è ipertrofica, invadente e volgare e spesso e volentieri si sostituisce alla Cultura in tutte le sue manifestazioni. E la Cultura generalmente è una cultura addomesticata, “di corte”, per compiacere questo o quel politico di turno per poter sopravvivere. Oggi le vere star sono proprio loro, i politici. Credo invece sia fondamentale rivendicare una posizione primaria alla Cultura, favorire instancabilmente l’incontro con l’altro e con le culture diverse dalla nostra. Dobbiamo ascoltare le storie e le motivazioni di chi arriva nel nostro Paese, dobbiamo essere instancabili nel costruire nuovi ponti tra Paesi diversi. Credo si debba superare un’idea “Europa centrica” arrogante e colonizzatrice e credo che andrebbe superato il desiderio ostinato dell’uomo di voler razionalizzare ogni cosa, l’idea lombrosiana di voler incasellare gli esseri umani in una immagine standardizzata, uniformata, che non turbi la “normalità”. Il bianco e il nero, il bello e il brutto. Già… la “normalità”. Cosa è questa tanto ricercata “normalità”? La normalità cela perversioni, mancanza di umanità, egotismo, cinismo, superbia, presunzione, violenza, ignoranza. La normalità è un concetto relativo, è la somma di regole arbitrarie stabilite dall’uomo in determinate condizioni e situazioni. La normalità nasconde la paura di tutto ciò che è diverso, sconosciuto. Ma tutti noi siamo diversi. Per citare Stephen Hawking: “Davanti ad eventuali esseri alieni, l’uomo dovrebbe solo fuggire perché i nuovi colonizzatori si comporterebbero proprio come i Conquistadores con i Maya e gli Aztechi: ci sterminerebbero.” Anche loro forse avrebbero paura di noi diversi, di noi piccoli uomini dall’aspetto strano e dal colore diverso, piccoli esseri insignificanti, “gli effimeri”, affogati nella nostra presunta e tranquillizzante “normalità”.
Mare Nero, di Gianni Paris, adattamento e regia di Daniele Salvo
Con Andrea Avanzi, Leonardo Bianconi, Andrea Carpiceci, Fabrizio Croci, Riccardo Parravicini. Costumi: Francesca Tagliavini Progettazione scenografie: Francesca Tagliavini Realizzazione scenografie: Cristiano Boldrin Light Designer: Giancarlo Vannetti Produzione NoveTeatro.
Ph. Marco Marani
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