Teatro
“Macbetto”, il visionario cabaret di un dittatore
“E adesso che ne sarà di voi?”. L’interrogativo incide come una lama il cuore di chi ascolta. Il dramma è compiuto e l’attore sollecita la piccola comunità di coloro che hanno pagato il biglietto, per essere stati testimoni di un viaggio nell’oscurità del male, a chiedersi se possiedano in sé le risorse per riuscire, come nell’ultimo verso dell’Inferno dantesco a “riveder le stelle”. E’ un urlo disperato e definitivo, mentre lentamente la luce, dal rosso acceso diventa grigio cupo fino al buio totale spegnendosi progressivamente sul volto disfatto e fatto a pezzi di Macbetto, ultima variazione shakespiriana di Giovanni Testori, scritta nel 1974 e finora portata in scena solo da Franco Parenti, interpretata questi giorni in prima nazionale con acuminata potenza da Roberto Magnani nel suo adattamento, coprodotto dal teatro delle Albe, Masque teatro e Meonoventi/E-production. Un dramma liquidamente immerso nel rosso granata del sangue, dove la conquista del potere da parte del signorotto scozzese e la sua signora, Ladi Macbet, interpretata puntigliosamente da Consuelo Battiston, una affilata gothic lady, rivela artaudianamente il suo doppio nello svelamento di una verità inattesa che lascia sgomenti. E’ la tela perversa di un ragno che non lascia vie di uscite, luogo a pentimenti o possibili fughe, quelle di “Macbetto (o la chimica della materia)” agito dentro la ristretta abside del teatro Rasi di Ravenna, spazio minimale che mette in intima comunione attori e spettatori, quasi una camera degli orrori dove non c’è linea di separazione tra pubblico e privato.
Il sangue è frutto degli escrementi e viceversa, mentre la sete di comandare il mondo è figlia di una perversa divinazione, frutto dell’oracolo di una strega (Eleonora Sedioli), partorita dallo stesso uccisore di Banquo, di cui non si vede mai il volto ma solo il continuo balletto di un corpo capovolto, gambe che si intrecciano continuamente all’aria, o sospese in verticale. Un servo di scena che è appendice malata, rizoma di un sentimento perverso e oscuro che incatena Macbetto alla sua donna. Il trait d’union che conduce dalla ragione alla follia, l’amore edipico del comando al fascismo e alla tirannide. Macbetto e la sua femmina sono intrecciati così strettamente l’uno all’altro, in un continuo travaso di sangue fino al feroce epilogo. Quando Macbetto facendo strame dei suoi nemici, cioè di chi ha osato opporsi al suo volere, cercherà sino allo spasimo colui che non fu partorito da donna, unico ostacolo al suo comando, così come ha vaticinato la stria.
Il racconto in rosso e nero mostra un affascinante intreccio di temi, una importante relazione ritmico musicale (la colonna è di Simone Marzocchi) che, sfiorando il melodramma, suggerisce ritmi e umori da cabaret weimariano. La lotta è spesso con il tragico che affiora qua e là, anche in virtù di un testo assai strutturato che, se è vero favorisce l’attore nel dispiegare un’azione chimica anche violenta, lo confina spesso nella gabbia dorata del verso. E’ così un corpo a corpo tra gli stessi attori e tra questi e il testo, l’elemento che dà vitalità a questa insolita rilettura shakespiriana che è un viaggio nel dolore, una via crucis del cuore di anime inquiete in cerca di riscatto. Macbetto è così tronfio e deliziato nel suo potere reazionario e liberticida, quanto voglioso di riscatto. Marionetta con il fez in mano a Ladi Macbet, a sua volta marionetta di sé stessa, della sua ulteriore sete di comando. Uccide e viene uccisa. Uccide di nuovo e ancora muore. Dieci e cento volte assassina e killer. Come Macbetto bestia insaziabile di sangue che mostra i segni del comando ma vorrebbe fuggire il suo destino. Simile sempre di più a un inferno. Così descrive Testori: “Meglio è che si smorzino, vuno a vuno, tutti i ciari di modo che niente più se vardi e più se veda di ‘sto morbato mondo/ di quel che sovra lui sta qui ‘rivando, niente della gran volta slacerata sù del cielo/ che dìseno sia eterna,/ perchè e mondo e cielo et universo intrego/ sono solo somiglianti/ al buso senza luse e senza fine dell’inferna”.
Riporta alle avanguardie russe questo Macbetto, al ricordo di quanto sono stati importanti per liberare energie mentali e osare l’impossibile artisti come Mejerchol’d e Majakovskj. Artisti e libertari che nel riscatto dell’uomo e la sua rivolta contro i poteri spostavano continuamente il limite della ricerca espressiva. Da qui la pulsione presente in tutto il dramma, soprattutto nella recitazione di Magnani, teso a liberare l’energia animale con gestualità brevi, pause e scatti. Un cabaret visionario che con il sottofondo musicale dovrebbe spingere a una ironica presa di coscienza e a un necessario distacco fino alla comprensione netta del suo/nostro tempo.“E adesso che ne sarà di noi?” chiede ancora alla fine Macbetto, alludendo alla dimensione collettiva del dramma e alla società contemporanea marcia e in piena decadenza. In un attimo il cono di luce si chiude. E rimane il buio.
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