Teatro
Macbetto delle donne
Qui è dove la poesia di Giovanni Testori svestì le parole del Bardo e fece della tragedia barocca un’opera di teatro contemporaneo. Era il 1974, Macbeth diventava Macbetto, Lady Macbeth la Ledi. Oggi, quell’orribilo teatro, sguaiato e poetico fa ancora la sua “sporca” figura nell’omonimo dramma diretto da Roberto Magnani al teatro delle Moline di Bologna.
Qui è dove tre attori di tre diverse compagnie tra Ravenna e Forlì, concentrano in ottanta minuti quattro secoli di riscritture e rappresentazioni di un testo complesso, articolato, oscuramente tragico come “The tragedy of Macbeth” di William Shakespeare. La chimica della materia è tutta qui, nella mescolanza di idiomi e inflessioni dialettali, linguaggi scenici, sangue e deiezioni.
Per non doppiare le tante note già scritte su questo Macbetto di Romagna, si tenta un’immodesta analisi sociale e politica di un lavoro ben interpretato dall’attore di punta del Teatro delle Albe, accompagnato da Eleonora Sedioli di Masque Teatro nella strega annunciatrice, e dalla Ledi fatale nell’eterea silhouette di Consuelo Battiston della compagnia Menoventi.
Italianizzando il nome del “Degno Gentiluomo” nel Macbetto di Testori, si ribassa di colpo l’imponenza del dramma, si frattura il blasone ed è subito accoglienza. Perché se chiami Macbetto un uomo divorato da una coscienza implacabile che gli parla in endecasillabi e settenari, sollevi il suo destino e lo lasci accarezzare da un’ironia battesimale che sacralizzando lo umanizza. Dall’altra parte suona come un sacrilegio, un sacro macello, una bestemmia del dialetto, ma la sgradevolezza della lingua porcellenta e falsatoria indossata da Magnani e Battiston non annienta l’anima drammatica del Macbeth originale. Solo, ridona nuova popolarità, nuovo sguardo.
Dalla scrittura di Giovanni Testori e dalle sue intenzioni di volgarizzare il dramma tardo seicentesco, parte questa nuova entrata nell’io remoto di Macbeth e della sua consorte. E’ un giovane promesso re, intenso, lordo e sempre insanguinato, vestito di scura uniforme, con fez stivali e fiocco neri da milite fascista; si muove dal mantra ossessivo merda-sangue verso morte e disperazione per tutti, sospinto da una lady sottile, famelica e spietata come una mantide. E’ lei a vincere la coscienza del re, in spietate flatulenti trame incapaci di esitazioni e di ritegno, in un monologo delirante al cospetto della strega (la stria) fuoriuscita dalle viscere di Macbetto.
Una coppia, di nuovo. Che dialoga, s’infervora e in ultimo si uccide in reciproci accoltellamenti. Basterebbe fermarsi qui per soppesare quanto la trasposizione di quest’opera ci abbia già condotto oltre la narrazione originaria. Lì Macbeth non uccide la moglie e questa, morendo di sua mano, si rivela in ultimo più fragile, o più folle. In Macbetto invece – si comprende da subito – è la Ledi a dominare. E’ lei a spingere alla catena di omicidi l’incerto Macbeth, di cui finiamo per smarrire passo dopo passo l’iniziale virilità a favore della “potera” celebrata senza mezzi termini dalla moglie, in chiaro riferimento alla forza ancestrale del suo sesso. E’ un ribaltamento dei ruoli di genere che porta il pensiero sulle first lady contemporanee, le loro italiane sorti ridiscusse oggi (come nel recente libro di Marianna Aprile “Il grande inganno”) all’interno del dibattito su una classe politica al femminile.
Macbetto sessualizza il potere in modo esplicito, e così facendo lo dichiara femmina. Una “potera” dunque osteggiata dal maschio, solo più forte nel corpo ma debole nello spirito. L’opera vuole gravido il corpo maschile al pari di quello femminile, disincantato e libero nell’ardire della Ledi. Si ritorna alla questione aperta sui generi e la loro progressiva contaminazione verso un ermafroditismo non più solo fantastico. E’ un “Macbetto delle donne” quello che infine muore invocando il tenaro levarsi di un’albetta.
Sul piano strettamente scenico i due personaggi evitano l’abisso proprio grazie alla lingua, alle parole, esempio di un espressionismo linguistico che nell’idioma usato – un dialetto pseudolombardo con inflessioni romagnole come vuole la poetica delle Albe – stempera un dramma altrimenti lacerante, troppo greve per un’attualità diretta all’immediato come la nostra. E’ grazie all’espediente linguistico, ai corpi esili ed eleganti della coppia, al clavicembalo di Chiara Cattani, che il lavoro tiene il pubblico in equilibrio tra poesia, dramma e cabaret noir. Le voci poi, cercate e trovate tra la pronuncia dei suoni, tra borborigmi e laringiti simulate nei ritmi e nelle musiche di Simone Marzocchi, sono elementi fondanti di questo progetto alchemico; la modulazione dei timbri e dei toni, che soffiano spesso contrari alla tragedia e riconfermano quanto sia forte, più forte l’anima dell’attore della sua tecnica recitativa e di movimento.
La Ledi al culmine dello spasimo decreta che il potere è femmina perché promana dal suo sesso e da questo è mosso l’uomo che nel fallo trova il prossimo errore. E’ questa consapevolezza a spingere il pugnale di Macbetto contro di lei e poi verso la strega, spargendo altro sangue sul sangue.
In chiusura, avrà dominato l’equilibrio scenico tra elementi contrastanti: il testo, che ammicca al farsesco ma contiene il dramma, la recitazione, ardita ma trattenuta dentro una forma poetica, la scena, impregnata di sangue, merda e altri umani liquidi, dove scivolare nella volgarità enfatica sarebbe stato facile dopo la comparsa in video di endoscopie al microscopio di nauseante realismo. La strega, ancora, abilissima nel suo stagliarsi nelle penombre del palco in un montaggio di arti scoperti e nascosti dalle luci: schiene e contorsioni di cosce e glutei senza volto, sono la costante tragica che catalizza l’equilibrio drammaturgico.
Liberare un dramma come il Macbeth dalla complessità e dalla sua portata psicologica attraverso una “lingua di scena” reinventata nel dialetto, suoni sintetizzati assimilabili a cori infernali, per accedere a un più ampio godimento di pubblico, è un atto politico. Significa conservare il nucleo immortale della tragedia innestandolo in “una cosa più povera” e forse più libera, in una forma dall’apparente semplicità espressiva che di volgare ha solo una lingua che divulgare vuole.
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