Teatro

Macbeth, il sismografo dell’inconscio

26 Gennaio 2020

Non ero mai stato al Lac di Lugano: una bellissima, elegante struttura di impianto assolutamente contemporaneo, che affaccia sul morbido lungolago. Vi sono arrivato in occasione del debutto dell’atteso Macbeth, le cose nascoste, nuova creazione del regista Carmelo Rifici (che del Lac è direttore), anche coautore con Angela Demattè e l’apporto della dramaturg Simona Gonella.

Di Rifici ho avuto sempre stima – sin da allestimenti ormai lontani nel tempo – ma di fatto sono state poche le occasioni di confronto con il suo teatro. Arrivo buon ultimo a recensire il lavoro – basta leggere le sagge e acute considerazioni di Renato Palazzi sul Sole24ore di domenica 26 gennaio per avere una ampia e esaustiva analisi – ma vorrei spendere qualche parola su questo lucido e aguzzo Macbeth.

Dunque, l’occasione propizia, interessante già sulla carta, mi ha spinto a varcare i confini, approdare a Lugano e, dopo aver comprato la cioccolata di rito, entrare al Lac. E mi è sembrato di cogliere un percorso possibile di avvicinamento allo spettacolo anche grazie alle due belle mostre in corso negli ambienti della struttura.

Si tratta di scendere un piano, quasi un calarsi negli inferi, per penetrare l’algida e inquietante istallazione di Julian Charrière, Towars No Earthly Pole. L’artista franco-svizzero allestisce un viaggio virtuale nel gelo, un percorso simbolico, buio, oscuro, tra biologia, fisica, landart, esplorazione di un mondo ghiacciato, eternamente mobile, incombente di crolli inattesi. Un enorme video, un diorama, immerge il visitatore in glaciali panorami che possono essere dell’Antartide o della Groenlandia: sono verosimili, sono veri, eppure presentano spiazzanti anomalie, difformità, fuorisquadra. Ci si perde, ci si confonde in quel ghiaccio eterno e stravolto, in quel buio da cui emergono strutture totemiche arcane o lampi di luce lunare.

Poi, si tratta di salire un paio di piani, per scoprire un altro mondo: è quello surreale ed ironico evocato dal noto William Wegman, con la mostra Being Human. L’artista americano gioca, è il caso di dirlo, con l’antropormofizzazione di una razza di cani, gli eleganti, metafisici (e lievemente ottusi) Weimaraner. Li fotografa in pose umane, surreali e disarmanti, divertenti e inquietanti: buffi cani in divisa, con pose autorevoli, oppure in languide evocazioni da modelle fashion anni Settanta, oppure ancora in concettuali derive cubiste o disturbanti trasformazioni mascherate. Nella dialettica tra anima e animale, il fotografo e videomaker Wegman apre squarci di sorpresa, dubbio e di continua, inesorabile, metamorfosi.

Allora, illuminato da questo percorso a zigzag tra natura e umanità, si approda nell’ampia sala del Lac per affrontare Macbeth.

La tragedia scozzese non è materia qualsiasi. È turbinio e fango, è sangue e sesso, è violenza e morte, magia e destino.

Bisogna avere qualcosa da dire, per dire Macbeth. E Rifici, come pure ricorda Renato Palazzi, ha molto da dire: intreccia indagine sull’umanità e le contraddittorietà del gruppo di lavoro (i suoi attori e le sue attrici), con cui accerchia il testo e i grandi temi dettati da Shakespeare. Sceglie una chiave d’accesso precisa: il confronto con l’oscuro, con l’archetipo evocato dal Macbeth, e lo declina in uno scavo psicoanalitico individuale e personale. Quasi a coronare il percorso nei piani del Lac, dopo gli abissi del gelo, dopo le ironie dell’identità, lo spettacolo è un’ampia, sofferta, aspra disamina delle tensioni, delle contraddizioni, delle sofferenze di tutti e ciascuno.

Rifici assume alcuni dei temi cardine della tragedia – la figura del Padre, la faticosa affermazione del sé, il legame di coppia – che diventano altrettanti spunti per sedute analitiche. Approccio non nuovo: basti pensare al nero, nerissimo Macbeth messo anni fa da Marco Bellocchio al teatro India, o all parossistica versione criminale, in odor di critica alla “teatroterapia” di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza.  Di fatto, lo sappiamo (basti pensare al libro Passioni in scena, dei Rustin, edito da Bruno Mondadori anni fa) il set psicoanalitico è grande metafora del teatro, ma qui non ci si sofferma all’approccio freudiano classico, quanto allo scavo, caro a Jung, del Profondo, dell’immaginario personale e collettivo. E a far da timoniere, in questo affondo verso l’oscurità, è lo psicoanalista Giuseppe Lombardi, figura straordinaria, avvincente davvero, che appare in grandi monitor che sovrastano il palco: sono video che riproducono le sessioni di analisi fatte con gli attori, senza sconti. Lui, Lombardi, con tono pacato, seduto in poltrona, chiede. Agli altri rispondere. Cosa risuona di Macbeth? In video, Lombardi diventerà un’immagine pop alla Warhol, un “papa” alla Francis Bacon, un incombente entità che interroga sorniona. Le risposte sono difficili, fino alle lacrime. E non c’è scampo.

Da questo presupposto prende vita lo spettacolo. Dal racconto di sé al racconto di Macbeth attraverso sé.

Le attrici e gli attori – tre Macbeth e tre Lady Macbeth – entrano in scena nello stesso clima di confessione, di svelamento del profondo. Ecco il motore narrativo, l’indagine ampia che fa da prodromo e da substrato all’allestimento. In epoca di sistematica sparizione del personaggio, sostituito dal performer, il racconto individuale, la confessione è strumento drammaturgico ormai conclamato e potente.

Foto Studio Pagi

In questa prospettiva, la bellezza e la forza del percorso di Rifici e del suo gruppo è saper incardinare, trovare un collegamento stretto e tagliente tra performance e interpretazione, un equilibrio dinamico tra persona e personaggio. L’una non può prescindere dall’altro, né viceversa. È uno scarto narrativo potente, un componente drammaturgico complesso che però regge e anzi si rivela un forte propulsore di attualità e immaginazione. Così, gli interpreti si insinuano nella storia, e ne colgono le pulsioni più vere e vive, lasciando poi che sia il teatro a crescere, anche con immagini e soluzioni sceniche bellissime. Che sono l’elegante impianto scenico, con Paolo Di Benedetto che disegna una pedana scoscesa su cui scorrerà acqua; le luci davvero inquietanti e micidiali di Gianni Staropoli; i costumi semplici e stranianti di Margherita Baldoni, e i video di Piritta Martikainen, scenografie naturali – come le immagini ghiacciate di Charrière – per definire quel mondo. Poi ecco i performer, appunto, a contribuire con verve individuale e messa a nudo sentimentale alla potenza della tragedia. L’alchimia, dunque è esplosiva, proprio perché la struttura della auto-narrazione viene supportata da indubbie capacità attorali. Allora la tragedia, come in un caleidoscopio, illumina frammenti diversi, si apre a possibilità alternative, suggerisce ipotesi inattese che culminano in una folgorante visione finale in cui l’uccisione del Figlio – la maiuscola è d’obbligo – si associa al rituale contadino dell’uccisione del maiale. Rito feroce e apotropaico, magico e ineluttabile destino di morte.

foto Studio Pagi

Lo spettacolo, misterioso e lucido, ha dalla sua dunque la disponibilità dei protagonisti. I tre Macbeth hanno i corpi, le voci e i caratteri di Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Christian La Rosa: potenti, diverse, multiformi, nevrotiche, violente, sfaccettate anime di Macbeth. Singolarità assolute eppure intonate tra loro, solisti in un coro che sa cantare le infinite diversità dell’anima. Poi le tre Lady, Keda Kreider, Maria Pilar Pérez e Elena Rivoltini: eleganti, fortissime, appassionate, dolenti, inquiete, intellettuali. E tutti saranno streghe, cieche testimoni del destino di tutti e ciascuno. Con loro sarà Alessandro Bandini, a vestire i panni dei Figli (Fleance, il figlio di Macduff) e in un rutilante finale anche dell’ambiguo Ecate, che mette fine alle passioni in scena.

Nel magma psicoanalitico e umanissimo dello spettacolo, Macbeth affronta sapientemente “le cose nascoste”, le evoca, le suggerisce, le osserva. Usa il testo classico per affrontare l’abisso, per chiedere, ancora una volta, chi siamo, cosa siamo disposti a fare, fino a che punto possiamo rinunciare a noi stessi o diventare quel che vorremmo essere. Domande aperte, continue, irrisolvibili, che scorrono nella vita come quell’acqua che scorre via e lava i corpi dei vivi e dei morti.

 

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