Teatro
L’utopia è una cosa seria, almeno a teatro
Sono in treno, forse con qualche linea di febbre.
Per quanto possibile, stiamo sempre a rincorrere spettacoli, da una parte all’altra dell’Italia. E di entusiasmo, per continuare, ne serve tanto.
La cosa che mi stupisce, pensavo, è che, nonostante tutto – nonostante questo Paese, verrebbe da dire – il teatro italiano abbia ancora la forza, la capacità, la qualità per entusiasmare, far discutere, appassionare, indignare.
Addirittura per un critico appesantito e affannato quale sono, c’è la possibilità di veder stagliarsi, sui palcoscenici, quell’utopia di teatro faticosamente inseguita anno dopo anno.
I critici, si sa, nella loro scontentezza, tendono sempre a un ideale irrealizzabile di teatro: la perfezione è di là da venire, c’è sempre questo o quell’elemento che ci infastidisce, che ci delude. Invece, meraviglia delle meraviglie, nella cupa e mesta fine 2014, segnata dalla squallida violenza di scandali a non finire (ogni giorno uno nuovo: dai Bunga Bunga, Parentopoli, Mose, Expo fino Romacapitale, e poi quanto altro?) il teatro, questo vecchiaccio selvatico e purissimo, questo Dioniso bambino tragico e buffone, continua a vivere con una forza straordinaria.
Per fortuna la parola teatro, ormai, si declina solo al plurale.
Teatri diversi: possibili e impossibili, civili e splendidamente incivili, poetici e didattici, lirici e politici, astratti e realisti, comici e tragici, per ragazzi o per adulti, disagiati e disagevoli, itineranti o sedentari. C’è spazio finalmente per una qualità diffusa (e se ne stanno accorgendo anche i programmatori), che innalza continuamente il livello performativo, soprattutto per quel che concerne le doti interpretative, con qualche guizzo registico-visionario o drammaturgico davvero non male.
Attori e attrici italiani, soprattutto, si stanno facendo carico di questa battaglia: con loro registi, tecnici, organizzatori, autori.
Spesso trattati come carne da macello da quella classe politica che non trova mai soldi per la cultura (spariti, i soldi, in chissà quale truffa), spesso abbandonati alle loro forze da istituzioni ormai prive di senso, costretti a bandi capestro o a lavorare rimettendoci, questi “teatranti”, nei casi migliori, che pure non sono pochi, si stanno rivelando sempre più attivi, attenti, partecipi. Raccontano il nostro mondo, lo vivono, lo illuminano, svelandoci chi siamo, che stiamo attraversando, dove arriveremo. Insomma, quello che ha sempre fatto il migliore teatro, quello vero e vivo, dall’Atene del V Secolo a oggi, che utopisticamente vorremmo vedere tutte le sere e francamente vorremmo anche sapesse cambiarlo, o almeno migliorarlo un po’, questo paese. Nei teatri, dai centri sociali agli stabili, passa dunque quest’ondata di nuovi attori e registi vivaci, che stanno faticosamente portando l’Italia in Europa: gli altri, i museali, gli ammanicati, i raccomandati, le star tv, i massoni, i lobbisti, i tesserati continueranno a lavorare, certo, a andare in scena, ma sappiano che quell’onda di nuovo teatro sta montando.
Pure per il critico, che si trovava perplesso di fronte a epifenomeni acclamati ovunque, che non capiva la ragione di certe mega produzioni, che se ne stava in disparte mentre altri beatificavano il presunto artista del secolo, di fronte a queste utopie realizzate si sente meno solo. Dunque, tanti segni possibili, tanti teatri vivi: penso, solo per citare gli ultimi tre visti ancora da recensire, a spettacoli come Natale in Casa Cupiello, diretto da Antonio Latella; Vita agli arresti di Aung San Sun Kyi, del Teatro delle Albe; e last but not least, La famiglia campione, de Gli Omini. Presto on line arriveranno anche i relativi articoli, per il momento mi piace pensare che allora è possibile, che c’è un teatro come potrebbe essere.
Ho già raccontato alcuni di questi lavori gratificanti (da Alcesti di Civica a Furia Avicola di Spregelburd, dall’arruffato Amleto di Paolocà ai raffinati lavori di Morganti e della potentissima Fortezza, dall’indimenticabile Gabbiano di Tomi Janezic ai battaglieri racconti di Celestini, dalle gag di Favino alle tragedie di Emma Dante, dal commovente Sieni al travolgente Castellucci ad altri ancora) e continuerò a scrivere.
Di certi lavori ho scritto, candidamente, con stizza e veemenza o non ho scritto affatto, ben sapendo che quel che vedevo non era (ancora) all’altezza del potenziale di quel gruppo o di quell’artista.
Sarà la febbre, ma abbraccio l’inattesa ventata di inspiegabile ottimismo che mi attanaglia, la tengo stretta e magari, per fine anno, faremo una bella pagina dedicata al best of 2014 in cui metterò in fila questi lavori. I migliori dieci dell’anno, indipendentemente dai premi ricevuti.
Alle alzate di sipario o all’accendersi delle luci, queste emozioni ci hanno svelato un mondo: abbiamo capito, per un istante, che il futuro passa soprattutto di qua. Vale la pena insistere.
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