Teatro
Luca Barbareschi o della cattiveria in scena
Nella mesta e sfibrata capitale commissariata e giubilata, il Capodanno è stato segnato dal concerto dei Negramaro. Meglio di niente, direte voi. Considerando, però, che Roma dovrebbe essere la capitale culturale (o almeno una delle capitali) del mondo, c’è da esser disamorati. Tant’è.
Il teatro si è affidato, sostanzialmente, a un evento corale e ai solisti. Al di là delle offerte “brinda con noi”, gli appuntamenti di rilievo sono stati quattro. Il Teatro di Roma ha ripreso dei pezzi, i migliori, del lavoro collettivo Ritratto di una capitale, visto lo scorso anno, affidato a vari autori e attori, coordinati dalla regia di Fabrizio Arcuri (mi dicono sia andato molto bene anche in questa versione best of).
Poi ci sono stati i solisti: Gigi Proietti, Arturo Brachetti e Luca Barbareschi. Dovendo scegliere tra il buonismo gigionesco del primo e il virtuosismo estetizzante ma fantasioso del secondo, ho deciso di andare all’Eliseo, la sera del 30, per scoprire quella specie di marziano che è Luca Barbareschi.
L’uomo, si sa, non gode di tante simpatie: certa intellighenzia romana tende a snobbare la riapertura del teatro di Via Nazionale, che Barbareschi ha restaurato e rilanciato investendoci del suo. La stagione della sala grande e della piccola sta andando a fasi alterne, ma non possiamo non rallegrarci del fatto che l’Eliseo, dopo confuse e faticose vicende di passaggio di proprietà, abbia ricominciato a funzionare: è un pezzo della storia del teatro, non solo romana.
Dunque lo spettacolo è Cercando segnali d’amore nell’universo e voglio dire subito che da tempo, tanto tempo, non ridevo tanto, di gusto. Oramai siamo abituati a catalogare gli oneman show o come monologanti (e magari impegnati e civili) o come versioni live dei comici tv.
Qua, invece, Luca Barbareschi, diretto da Chiara Noschese, interpreta una strampalata, aggressiva, corrosiva stand-up comedy, un viaggio nella proprio biografia (inventata o meno non importa) in cui non salva nessuno, tanto meno se stesso. Come una specie di forsennato pazzo tracima da ogni parte, aggredisce il pubblico a ritmo implacabile e affannato, incasella racconti, canzoni, mezze coreografie, citazioni, digressioni, per narrare – finalmente – la sua assai curiosa “carriera di un libertino”.
È una specie di seduta psicoanalitica aperta, un confronto tra sé e con gli altri sul filo della memoria, personale e generazionale, giocata con tagliente autoironia, come nella migliore tradizione ebraica (e newyorkese).
A me veniva in mente Il teatro di Sabbath, di Roth: quel misto di piccole perversioni, di sessuomanie, di divagazioni sull’arte e sulla vita che si portano dietro temi ben più cogenti. Il rapporto con la legge del Padre, la faticosa scoperta di sé e della propria sessualità, l’ambizione, la paura, le fughe e i sogni di un uomo che scopre il teatro più come pharmakon che non come eccentrica ribalta.
Ovviamente, in questo flusso interminabile e magmatico di coscienza, l’ego è misura di tutte le cose: ciò non toglie che Barbareschi dica apertamente quel che pensa, riesca a criticare il criticabile, a sfrangiare ipocrisie e perbenismi piccoli, medi e altoborghesi senza reticenze. E si ride, dicevo, pure tanto: ci sono episodi davvero esilaranti raccontati con un cinismo degno di Eric Bogosian o di certo Gaber. In questo lo spettacolo funziona egregiamente: proprio nell’essere uno strano oggetto esplosivo.
Ma mi sembra meno riuscito là dove l’attore cede al buonismo, a un sentimentalismo che rischia la maniera, la lacrima teatrale. La scomparsa prematura di un amico, una violenza subita nel segreto della sagrestia, la “auspicata” eppure dolorosa morte del padre: questi ed altri momenti sono affrontati con un eccesso di pathos che rischia di stonare. Meglio sarebbe stata – forse, chi sa – una lucida, fredda, analitica vivisezione anche di quei momenti. Come pure nelle belle interpolazioni “classiche” – in apertura Prometeo, poi As you like it, Riccardo III, Enrico V di Shakespeare, passando per l’amato Mamet fino al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa – che funzionano certo come “stacchi lirici” e prove d’attore, ma che rischiano di appesantire il tutto quando Barbareschi le spinge in un patetismo per me eccessivo (ma al pubblico dell’Eliseo piacevano, eccome). Insomma, quando va davvero fino in fondo nella cruda, schietta, travolgente e ironica analisi della propria esistenza, senza seduzioni sentimentaleggianti, Cercando segnali d’amore nell’universo diventa un piccolo, originale, capolavoro d’arte caustica.
Dallo sci sulle Ande alla New York di Andy Wharol, dai primi amori agli spettacoli in provincia, dalle zie milanesi alle tate sarde, dalle famiglie allargate alle (divertentissime) notti d’amore con una star francese, Barbareschi racconta tutto.
Non manca, ovviamente, un riferimento alla stagione politica berlusconiana: proprio dopo il monologo di Riccardo III arriva la voce del demagogo Silvio nazionale, che poi lascia spazio alle amare digressioni del principe di Salina. Fin troppo chiaro il messaggio sotteso.
Ma non basta: accompagnato sul palco dal quintetto di Marco Zurzolo (che vola sul sax soprano), Barbareschi suona la chitarra, il pianoforte, canta. Bossanova, jazz e rock’n’roll, per approdare a Mozart (che magari è un po’ facile), a dare un impianto sonoro da concerto, accattivante, al lavoro.
Pubblico contento e felicemente disorientato: nella fila di fronte alla mia c’era seduto il presidente Giorgio Napolitano, mi è sembrato che si divertisse tanto.
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