Teatro
L’Odin Teatret, Nando Taviani e Goya
Proseguiamo, caparbi e orgogliosi, a difendere il teatro. A far di tutto – ciascuno per quel che può – pur di tenere viva almeno l’idea di teatro, quella di esperienza da fare assieme, di tutti e con tutti. Proviamo a non farci risucchiare dal vuoto, dalla chiusura, dalla paura. Ci scaldiamo parlando di leggi, di tutele, di previdenze, proviamo a progettare, nonostante l’evidente e dolorosa situazione che ci inghiotte in una tenebra fatta di dolore e sconforto, di serie preoccupazioni, di incognite gravi per un futuro che non sappiamo bene quando e come potrà cominciare.
Allora, nella selva di iniziative che filtrano dai nostri schermi, pallidi palliativi a un teatro che è sempre e comunque presenza e condivisione, in questi segnali streaming che sono come il grafico di un battito cardiaco cui assistiamo attoniti percependo questi palpiti che danno il senso di una remota vitalità, ci sono notizie, tracce appunto, che in questo tutto-fermo richiamano l’attenzione. Così, nel volgere di pochi giorni, abbiamo visto i nostri computer illuminarsi della presenza dell’Odin Teatret. La compagnia fondata da Eugenio Barba – che forse più di ogni altra ha storicamente fatto dell’incontro tra esseri umani la propria ragione – è stata protagonista di due episodi legati tra loro.
Il primo è il debutto de La casa del Sordo, un capriccio su Goya. IL secondo la scomparsa dello studioso, storico del teatro, Ferdinando Taviani. Due fatti profondamente intrecciati tra loro.
La casa del sordo è il nuovo spettacolo di Eugenio Barba, affidato alla interpretazione di Else Marie Laukvik, con Rina Skeel e Frans Winther. Doveva debuttare, in prima nazionale, sul palcoscenico del Teatro Koreja di Lecce. E la chiusura dovuta alla Pandemia non ha cancellato questo appuntamento: lo spettacolo si è fatto ugualmente, in streaming. Lo abbiamo visto da casa, dai nostri schermi, trovandoci parte ancora una volta di una comunità – quel popolo segreto dell’Odin, di cui ama parlare Barba – che ha risposto all’invito di Salvatore Tramacere e di Koreja.
Ci siamo stati, abbiamo visto – mediato, riflesso, come in una eco – il racconto semplice e diretto della vita di Francisco Goya. Perché Else Marie, in scena, coadiuvata dalla presenza soccorrevole di Skeel e dalla magnetica e statuaria figura musicale di Winther, si è fatta narratrice e interprete della vicenda umana e artistica del pittore spagnolo. Goya è raccontato con ironia ed empatia, tappa dopo tappa, difficoltà dopo difficoltà, in un gioco scenico che è mascheramento e svelamento. Ci sono totem, quasi irriverenti spaventapasseri che celano e sembrano custodire quel che resta: le opere. Le tele del Goya, i lavori noti e meno, a partire dall’autoritratto dei Capricci. Quel signore con la tuba, dignitoso e un poco vanitoso, è l’artista evocato a diventare simbolo, emblema, paradigma. Else Marie lo mostra gradualmente, giocando ironicamente con se stessa e i propri mascheramenti, diventando con un gesto o un tono madre, moglie, amante, amica del pittore. Perché in fondo questo La casa del sordo è una straordinaria, elegante, metafora. Il gioco teatrale, così evanescente, così fragile nel suo essere immediata percezione e condivisione, è l’unico modo per l’interprete di lasciare traccia di sé. Le opere: restano le opere. Gli spettacoli, i personaggi, gli incontri, i libri. Le persone svaniscono nel tempo, è naturale, ma la loro azione resta. Ecco, allora, che forse inconsapevolmente La casa del sordo è anche un inatteso omaggio per Nando Taviani.
Chi vi scrive ha sul comodino, da sempre, un paio di libri: Contro il Mal’occhio (le bellissime polemiche teatrali, andrebbe ristampato) e Uomini di scena, uomini di libro. Poi certo, in passato c’erano gli studi sulla commedia dell’arte e su molto altro. Ma per me, che ho scambiato con Taviani al massimo due parole o una stretta di mano, quei libri raccontano ancora molto. Eugenio Barba ha organizzato un saluto commovente per Taviani.
A Holstebro, tutti insieme, nel parco, attorno alle pietre che ricordano Sanjukta, Augusto, Torgeir, con i costumi di scena, i trampoli, le maschere e gli strumenti musicali, con canzoni e danze. E con uno struggente, bellissimo, passaggio di testimone: Barba ha chiamato “quelli che continueranno il lavoro”, un’altra generazione, giovani e giovanissimi che animano la sede dell’Odin continuando nello spirito di Eugenio, di Julia, di Iben e di tutti i protagonisti dello storico gruppo. E prendendo il testimone anche di Nando Taviani, del suo modo rigoroso di studiare, del suo implacabile genio nel creare drammaturgie, nella sua voglia di capire.
Ecco, nella Casa del sordo, risuonano le voci, i rumori, i ritmi di una lunga storia che ha attraversato spazi e tempi. Nella sala vuota di Koreja, a Lecce, di fronte alle telecamere che garantivano la condivisione di uno spettacolo, si creava, si è creata, un’opera. Quella resterà, nel cuore. Ed è una lezione a resistere, a continuare.
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