Teatro

L’Odin Teatret, Eugenio Barba e il baratto: “In Sardegna, dove tutto iniziò”

28 Maggio 2019

Ci sarà anche un banchetto-baratto finale con gli abitanti del paese, nel Giardino Megalitico dopo le ultime scene dello spettacolo “Ode al Progresso”, protagonisti gli attori storici dell’Odin Teatret, compagnia radicale della scena contemporanea internazionale diretta da Eugenio Barba che, dopo quaranta anni, torna sui suoi passi, proprio laddove si accesero le prime scintille creative di quel “baratto” diventato famoso poi in tutto il mondo. In Sardegna, a San Sperate, centro operoso a pochi chilometri da Cagliari, fin dai Sessanta aperto alle istanze creative e al confronto, grazie a Pinuccio Sciola, scultore di grande talento, recentemente scomparso, e indomabile agit prop culturale che con l’arte riuscì a rivoluzionare una intera comunità, aprendo le porte del villaggio all’arte contemporanea e quindi anche al teatro.Per ricordarlo è nata, per sua volontà, “Santa Arte” cinque giornate allestite dalla stessa associazione fondata dai figli dello scultore, da domani in programma sino al 2 giugno con il sostegno della Fondazione Sardegna e dedicata all’incontro tra differenti linguaggi espressivi. Arte e relazione sociale, per un rapporto di scambio tra artista e comunità, tra attore e spettatore a teatro. Ecco quindi il progetto speciale dell’Odin Teatret che ogni sera mostrerà un suo differente spettacolo (domani inizia “Ave Maria” con Julia Varley (ore 21) e poi “L’eco del silenzio”, giovedì (ore 19) ancora con Varley, venerdì “Judith” (ore 21) di e con Roberta Carreri). Sabato mattina alle 11,30 proprio nel Giardino Megalitico, atelier all’aperto di Sciola, popolato dalle sue celebri, magnificenti sculture sonore, Eugenio Barba racconterà la sua idea di “Teatro non teatro”.

“Judith” con Roberta Carreri dell’Odin Teatret è uno degli spettacoli presentati a San Sperate (foto Tony D’Urso)

Al pomeriggio il via a “Ode al Progresso” e chiusura con il piano solo di Peter Waters. L’ Odin Teatret torna così in Sardegna in uno dei luoghi simbolo della sua storia di ensemble giramondo che, con la propria ricerca e gli spettacoli, ha segnato in modo indelebile la scena contemporanea. San Sperate fu infatti la prima tappa del viaggio in Italia compiuto dalla compagnia e risalente al gennaio del 1974. Interessante capire quarantacinque anni dopo quali sono i sentimenti e i ricordi che Eugenio Barba, uno degli ultimi maestri del teatro e il suo Odin Teatret serbano di quell’incontro che li portò a scoprire una realtà culturale come quella sarda di allora.

San Sperate _ racconta Barba _è all’origine di una ri-nascita dell’Odin Teatret. E lo scultore Pinuccio Sciola ne fu la levatrice. Quando nel gennaio 1974 arrivammo a Cagliari, Pierfranco Zappareddu (attore e regista sardo ora scomparso ndr) che ci aveva invitato, ci sconcertò raccontandoci di non avere i soldi per pagarci. Non dovevamo, però, sgomentarci. Aveva amici in altri posti della Sardegna, vitto e alloggio erano assicurati. La mia prima reazione fu di strangolarlo. A malincuore e disperato accettai. Pierfranco era una personalità fuori del comune e il primo posto dove ci guidò fu a San Sperate, alla casa di Pinuccio Sciola che ci accolse come se fossimo amici di vecchia data. Lì il gruppo dell’Odin, una decina di persone, dormì e fu nutrito, e nel suo studio di scultore rappresentammo il nostro spettacolo, “La casa del padre”. Per noi dell’Odin fu un’esperienza sconvolgente. Era la prima volta che mostravamo un nostro spettacolo a spettatori non tradizionali. In questo villaggio diventammo consapevoli che il nostro possedeva la possibilità di un altro tipo di contatto non solo con lo spettatore, ma con l’intera comunità. Fu merito di Pierfranco ma soprattutto di Pinuccio e del grande prestigio e credibilità che già godeva a quel tempo”.

Pinuccio Sciola. L’artista, scomparso di recente, è stato un personaggio chiave nella storia dell’Odin  (Foto di Attila Kleb)

San Sperate fu il primo momento di un viaggio che, con la successiva tappa di Orgosolo e l’approdo finale in Puglia, a Carpignano, gettava le basi di un rivoluzionario modo di rappresentare in luoghi senza teatro, come era anche il paese, a economia prevalentemente agro pastorale, di Orgosolo. Qui avvenne qualcosa di unico. Nacque all’improvviso, spontaneamente, uno scambio tra teatranti e spettatori. Fatto di canti e suoni, gestualità teatrali e antiche tradizioni. Cioè il “baratto”. O meglio l’antefatto di quello che poi influenzerà il lavoro dell’Odin.

Pierfranco Zappareddu mi propose vari luoghi in Sardegna. Io volevo andare in Barbagia, a Orgosolo, che in quel tempo era presidiato da ben tre caserme: di carabinieri, polizia e Celere. Era il cuore di quello che lo stato italiano chiamava il banditismo sardo. I nostri spettacoli prevedono sempre un numero limitato di spettatori, “La casa del padre”, solo sessanta. Ma ad Orgosolo, fuori della scuola dove presentavamo lo spettacolo, una folla di centinaia di persone esigeva di entrare tra schiamazzi e lanci di pietra. Il tumulto all’esterno rendeva impossibile ascoltare lo spettacolo per i sessanta prescelti, quasi tutti anziani. Alla fine ci dissero: non abbiamo capito quello che avete mostrato, ma cantate bene. Adesso, però, vi mostreremo come si canta. E cominciarono a cantare in quella tipica maniera sarda. Questa situazione fece una profonda impressione su di me e sui miei attori. Il suo ricordo affiorò pochi mesi dopo, a maggio, a Carpignano nel Salento dove ci eravamo trasferiti per preparare isolati e in tranquillità un nuovo spettacolo. Ma la popolazione voleva che ci esibissimo. Non avevamo uno spettacolo, ma la situazione di Orgosolo dello scambio dei canti, del proprio patrimonio culturale, fu il punto di partenza del “baratto”: una cerimonia festiva dove due culture si incontrano e riescono a comunicare attraverso canti, danze, storie, giochi, cibi tradizionali. L’incontro con la gente in Sardegna e in Salento provocò questa ri-nascita degli attori dell’Odin dal punto di vista tecnico come anche del modo di usare il teatro nella comunità”.

Eugenio Barba, fondatore e regista dell’Odin Teatret è uno dei grandi maestri del teatro contemporaneo

Il “baratto” venne perfezionata come tecnica teatrale diventando così strumento formidabile di “trasformazione” dell’Odin Teatret in compagnia “popolare” capace di mettere assieme ricerca antropologica e azione teatrale. Una chiave importante per aprire menti e cuori di spettatori in ogni latitudine del mondo. E’ d’accordo?

“Totalmente. Lo sviluppo della pratica del baratto ebbe conseguenze profonde nella storia dell’Odin per l’ispirazione che ha rappresentato. Il baratto fu usato da Mette Bovin, un’antropologa che si servì di Roberta Carreri, attrice dell’Odin, per un lavoro sul campo in Burkina Faso in Africa. Un altro esempio è il villaggio-laboratorio di Idum, a una decina di chilometri da Holstebro, guidato dal nostro attore Kai Bredholt che vi si è trasferito con la moglie e le sue due bambine. Qui le trecento famiglie che vi abitano usano il baratto in una serie di attività ma soprattutto per invitare e organizzare incontri e scambi con rappresentanti di altri villaggi che lottano contro il fenomeno della fuga dei giovani verso la città”.

Quei giorni in Sardegna furono anche tra gli ultimi di rappresentazione per uno spettacolo simbolo dell’Odin come “Min Fars Hus” che, sulle tracce di Grotowski più di due anni prima aveva segnato l’incontro tra il gruppo teatrale e la figura di Dostoevskij, andando in scena per oltre trecento repliche. Un formidabile campo di prova per il gruppo teatrale che sperimentando un nuovo modo di lavorare spingerà molti giovani sulle vie di un teatro trasformato radicalmente rispetto alle scene del tempo. “Min Far Hus” come lei stesso ebbe a dire (in “Breve Storia dell’Odin” (pag.163-164) e “La canoa di carta” ) “è il risultato della rivolta personale, della nostalgia, del rifiuto, della voglia di trovare se stessi e perdersi. E’ la necessità di scavare così a fondo da trovare le caverne sotterranee, coperte dalla roccia e da centinaia di metri di terra compatta. Per realizzare tutte queste intenzioni esiste una tecnica: la tecnica del varo e del naufragio. Bisogna progettare il proprio spettacolo, saperlo costruire e pilotarlo verso il gorgo, dove esso si sfascia oppure assume una nuova natura, significati non pensati prima, che i loro stessi autori osserveranno come enigmi”. Quanto, queste intuizioni, sono servite come fondamenta ai lavori successivi?

Uno scorcio del paese di San Sperate in Sardegna, celebre per il suo muralismo. Ospitò nel 1974 l’Odin Teatret

“Quello che lei chiama intuizioni sono state per noi profonde esperienze personali ma anche cammini di sviluppo tecnico. Divennero le basi per approfondire la nostra conoscenza professionale attraverso quello che anche chiamiamo “terremoti”, l’equivalente del sapere costruire, varare e poi sfasciare il risultato, per poi dai rottami far emergere l’essenziale dell’intero processo di lavoro. Mi rendo conto che questo metodo sembri follia. Vorrei ricordare però che ci troviamo nel campo dell’arte, di fronte all’obbligo e al compito di rinnovare la percezione e la comunicazione con gli spettatori, di trovare stimoli e strategie per lottare contro l’ovvietà e l’inerzia delle nostre certezze o incertezze nell’epoca e nella società in cui viviamo. Vorrei ricordare Picasso che affermava: ogni vera creazione, in arte, procede da una successione di distruzioni”.

Tornando a San Sperate, in quelle giornate del 1974. Dopo la rappresentazione di “Min Far Huns” il giornalista Alberto Rodriguez per “L’Unione Sarda” raccolse alcune dichiarazioni all’uscita dallo spettacolo. Un contadino: “Non ho capito niente, perché sono abituato al cinema e alla televisione che mi raccontano delle storie. Qui storia non c’era, ma tante scene e tante immagini. Ognuno mi sembra che ne può capire quel che vuole. Chissà domani ripensandoci cosa mi verrà in mente”. La moglie: “Mi sembra incredibile come hanno saltato, gridato, recitato quelle due donne; non credevo che le donne potessero essere più brave degli uomini. Non ho capito niente ma non mi sono annoiata. Poteva essere un racconto di spiriti e di mostri come quello dei fantasmi che raccontano ai bambini”. Un operaio: “Secondo me era un grande gioco per divertirci tutti; c’era un attore che rideva sempre, e poi c’erano salti mortali, capriole come si vede in un circo. Ma non era uno spettacolo che faceva ridere. Io credo che volesse farci pensare”’. Nei luoghi senza teatro (San Sperate, Orgosolo e Carpignano) nascono così un nuovo spettatore e un nuovo teatrante. E il teatro non coinciderà più con lo spettacolo. O con una storia, ma con le cento e mille di ognuno. Vi rendevate conto di quanto e come stavate rivoluzionando la pratica del teatrante e quella dello spettatore?

“Assolutamente no, facevamo solo quello sapevamo fare. Ci aveva preso molto tempo e lavoro come gruppo di autodidatti, ben due anni di prove, per terminare “La casa del padre”. Vedendo questo spettacolo, anch’io ero sconcertato perché non riuscivo a spiegarmi razionalmente che cos’era esattamente quello a cui assistevo. Non riuscivo a decifrare le mie reazioni emotive, associazioni e stupori di fronte a quello che avevo deciso io stesso con i miei attori. Le reazioni degli spettatori di San Sperate e di Orgosolo mi resero consapevole che esiste un altro livello di comunicazione aldilà di quello narrativo, artistico ed estetico. È difficile parlarne perché la realtà di questo livello si percepisce solo facendone l’esperienza. È difficile dare indicazioni che diano la certezza di arrivarci. Ma è verso questo livello o dimensione che cerco di issare i miei attori in ogni nuovo spettacolo che preparo. Forse adesso si potrà comprendere perché la tecnica del varo e del naufragio sia così importante per l’Odin”.

Una scena da “Ode al Progresso”  che l’Odin Teatret mette in scena questi giorni in Sardegna  (foto Rina Skeel)

Correvano i Settanta e quelli erano anni nati sull’onda del Sessantotto, giorni di impegno e contestazione, eppure nei vostri allestimenti a differenza di gruppi come il Living Theatre la politica era sottotraccia, una delle componenti del lavoro finale. A cosa rispondeva questa scelta?

“Un teatro può professare esplicitamente la sua visione del mondo nei suoi spettacoli. Opporsi per esempio alla violenza verso le donne. Ma l’effetto politico è diverso se lo spettacolo è presentato a New York oppure in un villaggio indiano. È il contesto a scatenare un effetto politico. In più, uno spettacolo politico non obbliga i suoi creatori a una coerenza anche nelle loro vite private. Nessuno conosce esplicitamente la visione del mondo dei singoli membri dell’Odin. Neanche io. Giudico i miei attori dalla coerenza della loro vita privata e professionale. Durante gli anni Settanta, al tempo del massimo fervore politico in Europa, la cosiddetta sinistra considerava l’Odin un teatro formalista, mistico, incomprensibile ai proletari e incapace di indurli alla rivoluzione. Ma io, con le mie esperienze da emigrante, volevo che il mio teatro realizzasse certe necessità: stessa paga per tutti, stessi obblighi, un lavoro che è sviluppo di se stessi e che non si limita a otto ore, un impegno quotidiano che è sforzo incessante per non cadere nell’autocompiacimento e nella routine. Volevo che mio teatro fosse un ambiente che sudasse vita, nuovi stimoli, esperienze che arricchissero. Tutte le mie energie erano tese per tenere insieme questo ambiente costituito da stranieri di una dozzina di paesi diversi, che abitavano in una cittadina provinciale danese la cui popolazione reagiva rifiutando i loro spettacoli così poco tradizionali. L’Odin è un teatro che ha una politica: stare sempre dalla parte degli innocenti, cioè delle vittime. Mantenere la sua identità di diversi. Non lasciarsi sopraffare dalle leggi del mercato degli spettacoli”.

Un’altra scena tratta dallo spettacolo “Ode al Progresso” dell’Odin Teatret (foto Rina Skeel)

Come venivate accolti dagli altri gruppi e realtà teatrali che operavano nei luoghi dove sbarcavate con i vostri spettacoli? Incontravate simpatia e interesse o qualcuno si sentiva minacciato dalla vostra presenza? A questo proposito si ricordi come, in occasione della seconda discesa dell’Odin in Sardegna, nel 1975, con “Il libro delle danze”, l’iter di un progetto finalizzato a una ipotesi di vostro radicamento per qualche mese (oggi si direbbe “residenza”) nei fatti abortì per via di un macchinoso percorso che avrebbe dovuto coinvolgere una Regione nei fatti assai indifferente. Ma non se ne fece nulla anche per la freddezza di qualche teatrante locale timoroso di perdere quel poco di risorse di cui era beneficiario. Tutto questo mentre intellettuali, mondo della scuola, ma anche una parte del teatro sardo, Università e stampa si erano schierati a favore.

“L’Odin ha sempre scatenato reazioni di calore e fascino o rifiuto e freddezza. I motivi erano differenti: psicologici, politici, economici, artistici, religiosi, estetici, sociali, terapeutici. Dovunque andavamo, le persone si dividevano nella loro relazione verso di noi. Succede ancora adesso, anche se in scala minore. Quanto alle autorità, è difficile trovare personalità di politici o funzionari capaci di rompere le remore delle loro funzioni. Eppure l’Odin ha spesso incontrato politici e funzionari che sono stati decisivi per la nostra sopravvivenza e crescita. Penso al sindaco di Holstebro in Danimarca che nel 1966 ebbe il coraggio di accogliere nella sua cittadina di 16.000 abitanti un gruppo di stranieri dalla Norvegia che faceva un teatro incomprensibile ed ebbe il coraggio di difenderci per anni contro il rifiuto della popolazione. Oppure Hans Jurgen Nagel, un funzionario all’assessorato della cultura di Bonn in Germania che mi trovò il denaro per iniziare l’ISTA, la Scuola Internazionale di Antropologia Teatrale nel 1980. Non era né un corso né un festival. Non si presentavano spettacoli, ma per un mese intero una cinquantina di artisti di diverse culture teatrali con i loro musicisti ed ensemble si scambiavano praticamente informazioni e mettevano a confronto le loro tecniche”.

Un manifesto dell’Odin Teatret  del 2015 che richiama l’attività del NordiskeTeaterLaboratorium

Dopo le esperienze in Puglia e Sardegna, il grande salto in Sudamerica, dove avete fatto incontri che vi hanno segnato a lungo. Anche lì l’Odin Teatret ha lasciato un segno profondo, contribuendo alla nascita di compagnie e gruppi. Quale sensazioni muove il ricordo di quei giorni? Il contatto con il pubblico sudamericano fu una conferma alle intuizioni maturate nei giorni delle vostre residenze in Sardegna e Puglia?

“La grande sorpresa, arrivando in America Latina agli inizi degli anni Settanta, fu scoprire che quasi tutto l’universo teatrale era costituito da gruppi di teatro. Affrontavano gli stessi ostacoli e problemi per cui eravamo passati noi dell’Odin e che continuavamo a dover risolvere: come prepararsi per diventare attori, come sopperire alla mancanza di edifici teatrali o di mezzi materiali, dove operare e agire, che senso dare alla propria azione. Fu l’incontro con gente che viveva la nostra stessa condizione. Per i latino-americani fu impattante vedere come l’Odin avesse costruito il suo sapere tecnico da autodidatti, e come avesse scelto la strada, la piazza, l’intero spazio urbano come luogo d’azione. I nostri spettacoli, parate e interventi che avevano visto la loro origine in Sardegna e in Salento, furono una scossa e uno stimolo per loro. Si crearono profonde amicizie e collaborazioni con molti gruppi del Perù, del Brasile, Messico e Argentina. Sono legami che il tempo non ha logorato e ancora oggi l’Odin Teatret trascorre almeno due mesi l’anno aldilà dell’oceano”.

Odin Teatret a Holstebro, la cittadina danese che vi ha accolto e dato ospitalità mezzo secolo fa. Il vostro è uno spazio aperto. Non si fa solo teatro ma anche confronti, convegni e studi. Insomma è un laboratorio. Qui hanno preso vita tutti i vostri lavori e tra qualche mese anche un vostro nuovo allestimento dovrebbe prendere il via da quelle parti. Con una lettera aperta avete annunciato per la fine del 2020 il vostro ritiro dalla direzione dell’Odin. Cosa accadrà ad Holstebro? E al gruppo? Che futuro l’attende e, soprattutto, la sua guida, il Maestro amato da migliaia di teatranti e spettatori in tutto il mondo cosa farà?

“Quando l’Odin Teatret si trasferì nel 1966 da Oslo, capitale della Norvegia, a Holstebro, un piccola cittadina in Danimarca, lo trasformai nel NTL, Nordisk Teaterlaboratorium. Cosa fosse un laboratorio teatrale, a quei tempi, era difficile dirlo. Tutta la nostra storia ha permesso di dar realtà a questo termine attraverso una profusione di iniziative innovatrici che hanno ispirato altri teatranti. Dentro la cornice del laboratorio l’Odin Teatret è un gruppo di attori con me come regista. Vi sono poi altre attività: pedagogia, il famoso training che nel 1966 era qualcosa di totalmente sconosciuto e che consiste nel preparare un attore attraverso esercizi fisici e vocali. Inoltre pubblicazione di riviste e libri, produzione di film sulla tecnica dell’attore, iniziative e interventi nella comunità, ricerca pura sui principi transculturali dell’arte dell’attore che ha luogo nell’ISTA, l’International School of Theatre Anthropology. Oggi le attività sono molto di più. Alla fine del 2020 io mi ritirerò come direttore del NTL, Nordisk Teaterlaboratorium, e dalla responsabilità di coordinare e dirigere questo mosaico di iniziative. Mi concentrerò solo sull’Odin Teatret. Un nuovo direttore sarà responsabile del NTL, e Julia Varley ne sarà la coordinatrice artistica. Holstebro continuerà a sviluppare la tradizione del teatro come laboratorio artistico e sociale”.

Un frammento tratto da un filmato sull’Odin Teatret ad Holstesbro in Danimarca dove la compagnia risiede dal 1966

 

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