Teatro

L’incomunicabilità de “Le voci di dentro”

23 Gennaio 2015

Si ride, e non poco, durante la rappresentazione de “Le voci di dentro” di Eduardo De Filippo (al Teatro Argentina di Roma, dal 20 gennaio al 15 febbraio). Eppure al riso segue l’amarezza, una sensazione di vicinanza e profonda coscienza che annulla la distanza tra attori e pubblico.

La scena è scarna, semplice. Un piano inclinato fa pensare immediatamente al senso di caduta, inarrestabile e irreversibile.  Su quel piano si muovono, ognuno con un proprio ritmo e seguendo linee diverse, i personaggi immaginati da Eduardo. Uomini e donne della Napoli post bellica, girovaghi tra le macerie dell’umanità, incapaci di ricostruire su ciò che è stato distrutto. E’ in questo realismo che guarda al futuro, fino a sfiorare la contemporaneità, che si dipana la storia di Alberto Saporito. In bilico tra la dimensione del reale e quella del sogno, don Alberto accusa la famiglia Cimmaruta di un terribile assassinio. Ma la verità è difficile da afferrare, e in lui si insinua forte il dubbio di aver immaginato tutto. Questo non impedirà ai Cimmaruta di iniziare un processo “tutti contro tutti” dove, ad avere la peggio, sarà “la stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza“.

Toni Servillo, acclamato dal pubblico fin dal suo ingresso sul palco, protagonista nei panni di don Alberto Saporito e regista della commedia, riempie di senso le parole di Eduardo. La sua messa in scena è intensa e approfondita, non solo nel parlato, ma anche, e soprattutto, nei silenzi espressivi, che disegnano sul suo volto e su quello degli altri (bravi) interpreti (a partire dal fratello Peppe) la sfiducia dell’uomo nei confronti dell’uomo, afflitto dal sospetto e dalla cattiveria, incapace di porre rimedio all’inesorabile e rovinosa caduta dei valori. Un virus apparentemente incurabile che affligge la società.

E’ questo il senso profondo e amaro de “Le voci di dentro”, dei suoni soffocati e incapaci di venire fuori, sublimati nel personaggio di Zì Nicola, l’incomunicabilità fatta persona. Convinto dell’impossibilità di essere ascoltato dai propri simili, il vecchio Zì Nicola sceglie deliberatamente di smettere di parlare, ma riesce comunque ad esprimersi attraverso un codificato scoppio di mortaretti. La sua rinuncia è il punto di non ritorno dell’indifferenza che ci rende tutti carnefici e vittime, obbligandoci a cercare altrove, forse proprio nel sogno, uno sfogo alle inquietudini.  In senso lato, “l’incapacità di dire” e “la volontà di non dire” impongono una responsabilità ancora maggiore a chi le parole sceglie di usarle, scritte o parlate, fuori e dentro al teatro.

La denuncia di Eduardo, che accende i riflettori su un “dopoguerra morale” che pare non essere ancora terminato, è limpida e inequivocabile. A poco serve aggrapparsi a ciò che non può più essere. Il passato è una sedia consumata, come quelle di proprietà dei fratelli Saporito, “apparatori di feste locali“, che a malapena può reggere il nostro peso. E sono proprio quelle deboli strutture a sorreggere, nel finale, i poli opposti delle scelte possibili. Da un lato Carlo si abbandona al sonno, rifugiandosi nel paradosso del sogno, dall’altro Alberto cerca invano lo sguardo rassicurante del fratello, rimanendo impigliato nel doloroso silenzio della veglia e del reale, prima che venga rotto dagli applausi.

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.