Teatro

Liberovici: Venezia in musica per ritrovare la bellezza d’Europa

16 Ottobre 2019

Con Trilogy in two, Andrea Liberovici, compositore, regista, autore, prosegue l’indagine nel suo “teatro del suono” basato su stimoli narrativi e musicali liberi e personalissimi. Il lavoro riprende personaggi e poetica del precedente spettacolo, Faust’s Box: si avverte non solo una continuità di elementi drammaturgici, ma stessa è la straordinaria protagonista, l’americana Helga Davis (già interprete di Einstein on the Beach di Bob Wilson e Philip Glass) qui affiancata dallo Schallfeld Ensemble con la direzione musicale di Sara Caneva.

È un’opera mosaico, questa Trilogia, un incastro di tasselli che compongono un disegno complesso, in cui si ritrova Faust, figura goethiana assolutamente reinventata, assieme ad altri personaggi emblematici, veri archetipi europei. Lo spettacolo sarà in scena il prossimo fine settimana, il 19 e 20 ottobre, al prestigioso Festival Aperto di Reggio Emilia per poi approdare al Teatro Nazionale di Genova e al vivacissimo Romaeuropa Festival (il 6 novembre) negli spazi del Teatro Studio all’Auditorium “Parco della Musica”.

Abbiamo chiesto all’autore quali fossero le motivazioni, cosa l’abbia spinto a creare questa opera decisamente contemporanea…

Sempre più mi sembra di vivere tra i ruderi della bellezza, di quella che è stata l’identità europea. Non ci son dubbi: abbiamo prodotto, in passato, grandi cose, opere notevoli. E su questo rapporto con il passato ho iniziato a riflettere in particolare da quando sono tornato a vivere a Venezia, cui sono profondamente legato. È stato uno choc. Sono cresciuto a Venezia, con mio padre Sergio e con mia madre Margot e ricordo bene come era la città allora. Quando ero ragazzo i turisti ci fermavano per sapere dove fosse quella tal chiesa o quel museo. Oggi chiedono dove sia Prada per andare a fare shopping. E sono 25milioni di turisti l’anno. Persone che usano Venezia come fosse junk food. Un fondale buono per i selfie. Sono generalizzazioni le mie, lo so: certo ci sono eccezioni, c’è anche un turismo consapevole e attento. Ma la realtà è facilmente riscontrabile. Ho avvertito, insomma, questa visione potentissima ed estrema: il fish’n’chips in piazza San Marco come segno del capitalismo selvaggio che sta distruggendo il nostro passato e il nostro immaginario. Così, la riflessione che attraversa i “tre tempi in due”, è su cosa nutra oggi il nostro immaginario. Chiarendo bene che, per fortuna, non esistono più dogmi su cosa sia bello o brutto: ciascuno di noi ha la propria idea di bellezza. Eppure c’è una attitudine, una questione ancora più basica, fondamentale, sulla quale mi interrogo ed è il grande discrimine che cerco di raccontare in questo lavoro. Si tratta, in buona sostanza, di capire se, come accade a Venezia, cercando di nutrire l’immaginario della bellezza costruiamo ponti, e dunque entriamo in relazione con l’Altro oppure se fare, semplicemente un ritratto di se stessi. Quale sia il ritratto o quale sia il ponte non mi importa, ma conta la scelta alla base, la dicotomia. Oggi siamo tutti artisti, siamo tutti costantemente chiamati a “esprimerci”, a diventare “fotografi” o “videomaker” grazie alla tecnologia. Siamo tutti “performativi”? No, non è così. Non ci rendiamo conto che sono i dispositivi ad agire, a fotografare, a filmare. Non siamo noi. Le tecnologie ci trasformano in junk food della cultura e della bellezza.

 

un momento di Trilogy in Two, foto Paolo Porto

 

E dunque cosa dobbiamo aspettarci da questa opera? Un “Canto” alla bellezza scomparsa? Un’opera impregnata di nostalgia? Un monito?

No, non mi permetterei mai di indicare strade. Ma, per restare in metafora, vorrei costruire ponti. Quel che vorrei arrivasse da questi tre capitoli, è che la bellezza è qualsiasi “forma” che nasce dal desiderio di umanità, di entrare in contatto con altre persone. In questo senso, il teatro è l’ultimo baluardo, l’unico luogo e l’unica arte in cui serve la relazione, il contatto tra attore e pubblico. Impossibile fare teatro da soli. Per fortuna, invece, il teatro  interroga, resta democratico, attivo. È il luogo delle domande, non delle risposte. Cosa nasce dalle nostre domande? Nello spettacolo attraversiamo tre esempi diversi, tre modelli di vita e proviamo ad affrontare questi temi. Il primo, ambientato a Praga, è un mito della cultura europea, Faust e il suo demone è essere uno sfrenato “consumatore”. Ma subito, in contrapposizione ci sarà un tableaux vivant, una “pietà”: chi aiuta chi? Come diceva un pescatore di Lampedusa: “Aiutare fa gli altri fa bene, dà senso alla nostra vita”. Ecco allora il secondo mito, Florence Nightingale, la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna, e che dunque ci insegna come curare l’Altro. Infine un’architettura, una città. E ho pensato, allora, a Venezia, che, malgrado le orde dei turisti, in alcuni momenti dell’anno ritorna se stessa: una città umanistica, dove sei obbligato a “ciacolare”, a uscire da te, a incontrare l’Altro. Venezia detta l’attitudine, dà un jetlag temporale, ha un suo ritmo, fisiologicamente corretto, rallentato. Ed è il suono che ci determina: Venezia è un grande strumento musicale, dove tutto si riflette, si evolve in tempo reale. È una grande cassa armonica che crea la relazione.

Dunque ritrovare Venezia è anche una risposta alle domande dei primi due capitoli?

Sì, è un percorso attraverso il suono. In una lettera, il personaggio principale – che è interpretato dalla splendida Helga Davis – riceve otto suoni. Lei è una viaggiatrice nell’inconscio: entra dunque in otto spazi sonori, otto stanze, in un gioco che potrebbe evocare “L’Enfant et les Sortilèges” di Maurice Ravel. Alla fine, evocando un madrigale del cinquecento reinventato musicalmente e linguisticamente, lei entra nell’acqua, nel fango, e solo così può risorgere: dopo essere sprofondata nel fango, attraverso quel percorso,  può capire la bellezza. Proprio come Venezia che sorge nel fango, è nata nel fango ed è la bellezza…

 

Helga Davis, foto Paolo Porto

 

Torniamo all’Europa. Quando nacque, l’Unione Europea si identificò con l’Inno alla Gioia. Oggi che usica sarebbe adatta all’Europa?

Rispetto all’inno europeo di Beethoven, se penso all’oggi, vedo che gli unici musicisti europei che hanno comunicato gioia al mondo sono stati i Beatles! E quindi una bella riunione dei “cuori solitari“ europei insieme a Sgt. Pepper credo darebbe un bello sprint a questo grumo di burocrazie che chiamiamo Europa! Pensali li, tutti insieme, nella grande sala di Strasburgo che cantano in coro esattamente come la celebre copertina del vinile… Scherzi a parte, mi piace citare una battuta, con cui si chiude lo spettacolo. È tratta da “Conversazioni con Kafka”, di Gustav Janouch. E Kafka dice: “La giovinezza è felice perché ha la capacità di vedere la bellezza. Quando questa capacità si perde, comincia la vecchiaia e l’infelicità…”.

 

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