Teatro
Agli attori e alle attrici: letterina di Natale tra l’incanto e l’algoritmo
Buon Natale.
Torno a scrivervi, per quest’anno che si chiude. Voi là, in scena, attrici e attori, ci siete ancora.
Vi vedo, dopo spettacolo, con gli occhi che ancora brillano, pesti, spersi ma brillanti. Siete andati in scena, c’è stato lo spettacolo. Il rito, l’eterno rito di questa umanità, si è ripetuto.
Ma qualcosa pare sfuggire, qualcosa non torna.
Per quanto ancora? In questi anni il sistema è mutato, si è complicato. I fermenti di rivolta sono stati sedati.
Resta il disincanto. Mi sembra, in questa stagione, che il teatro viva della disillusione. Il teatro del disincanto. Su questo vorrei riflettere e chiedervi.
Un’arcigna influenza mi ha tenuto a lungo in casa. Guardavo film in bianco e nero, video di vecchi spettacoli. Sono capitato su Sik Sik l’artefice magico. Una farsa, una storiella. Ma quanto incanto, quanti sogni a occhi aperti dietro quei trucchi posticci. Ecco, il teatro del nostro tempo mi sembra sempre più disincantato, reso incapace ormai di sognare. Addomesticato? Certo stretto dalle maglie dell’algoritmo, del consenso, del botteghino. Determinato, quasi censurato, dal bando. Il bando segna la creatività.
Chi sogna più? Chi rischia più?
Non voglio parlare di “magia”, ché il teatro è fatica e lavoro. Ma quell’incantamento, quella sospensione dell’incredulità, che fine hanno fatto?
La realtà si è impossessata della scena. Va bene, lo sappiamo. Il performer ha mandato in pensione il personaggio. Anche questo lo sappiamo. Ma loro, i personaggi, che dicono? Chi li può più affrontare, se non riportandoli a se stessi, al proprio presente, alla propria pelle? Se non riducendo tutto, rattrappendo tutto, all’evidenza del possibile.
Ecco, la “Vita” ormai è diventata il “deserto del reale” caro a Zizek. Tutto è qui.
E i sogni, con buona pace di Prospero, rimangono nei cassetti. C’è da rispondere al bando, da fare il progetto, da racimolare qualche soldo per campare.
Che dire poi, dei Teatri? Varrebbe la pena chiederci, con forza, senza infingimenti, che ci stanno a fare questi Teatri. A chi rispondono questi bellissimi sepolcroni imbiancati, a cosa tendono. Ne parlavo, qualche sera fa, con un amico, un grande regista. I teatri che non fanno lavorare gli attori: ecco il paradosso. Sempre più chiusi su se stessi, a rispettar la ferrea disciplina del prodotto.
Gestiti da manager – bravi, bravissimi, per carità, che devono far salti mortali, anche loro – e destinati al cabotaggio da piccole e medie imprese. Si produce, si butta, si produce di nuovo. Lo spreco e il deficit hanno preso il posto del progetto.
Non per tutti, non ovunque, va da sé. Certo la tendenza è riscontrabile.
Che senso ha? Gli attori e le attrici, bravi, preparati, stanno a casa. Gli amministrativi gestiscono. Tutto bene?
Basta allora il grande nome? E “grande” rispetto a cosa, a chi?
Successo e consenso sono parole che dovrebbero far tremare i polsi. Lo scriveva già Roberto De Monticelli: «una parola che non dovrebbe mai ricorrere nei discorsi che si fanno sul teatro è “consenso”». Quante anime ha, il consenso? Badate bene, non c’è solo il consenso “governativo”, mainstream, ma anche quello tra le elite, le piccole tribù, i soliti “chierici vaganti” degli addetti ai lavori. Se parliamo solo a chi già è d’accordo, che parliamo a fare? Il dubbio, la dialettica, la domanda, in questa epoca di verità esasperate e conclamate, può solo far bene.
Ancora: ecco un repertorio ridotto a quattro titoli in croce; la famosa lunga tenitura che diventa un weekend, quattro turni, qualche ripresa.
Ma voi, attrici e attori, sempre pronti. Essere pronti è tutto, si sa, però qui, sulla vostra generosa disponibilità, ci si marcia un po’ troppo.
Viene da pensare a un fenomeno in crescente diffusione: la “leva del 99”, ovvero i neo diplomati, anzi i non-ancora diplomati che diventano “professionisti” mentre sono ancora in fase di formazione e apprendimento. Anche in questo caso: va bene, fanno cose bellissime e ne siamo felici.
Eppure vediamo anche classi intere di allievi spremuti in allestimenti da mandare in tournée, con l’alibi del “necessario” e “formativo” incontro con il pubblico. Costano poco, non si lamentano, sono bravi e pieni di energie: carne da macello, una stagione dopo l’altra, pagabili con contratti capestro. Tanto poi c’è l’annata successiva.
Già, è vero: il contratto. Avevamo salutato come una vittoria, discutibile ma importante, la firma del rinnovo del contratto nazionale. Qualcuno ne sa qualcosa? Certo, molti lo applicheranno, ma sono davvero tutti?
Ma voi, attrici e attori, sempre pronti. Non ti pago le prove. E vabbè. Devi fare il workshop a pagamento, e vabbè. Non c’è diaria. E vabbè. Non ti ho detto? Le repliche non sono 5 ma 3 e devi vincere il bando. E poi?
Poi siete (siamo) tutti stanchi. Siamo sfiniti. Disillusi. Il disincanto. Ecco il teatro del disincanto. Fatto quasi più per rabbia, che per convinzione. Un teatro che rischia di diventare sempre più contratto, nei tempi e nelle aspirazioni, sempre più intimidito, confuso, a perdere. Tanto sforzo, per poco o nulla. Quelle tre repliche diventano l’orizzonte di riferimento, la prova della vita. Senza respiro, senza possibilità di crescita, di maturazione. Per cosa, per chi?
La svolta aziendale, ormai acquisita, introiettata, il miraggio produttivo sta consumando come braci proprio voi, attrici e attori. Operai non tutelati: sfruttati e buttati, altro che atleti del cuore.
Ovviamente gli organizzatori fanno quel che possono, con passione e competenza. Anzi, fanno quel che devono, quel che il Ministero chiede, quel che l’algoritmo o il Bando o l’assessore di turno impongono. Saranno contenti?
E Sik Sik che fine fa?
Si cercano soluzioni: nuovi testi, oppure nuovi “scandaletti”, performance che dovrebbero essere “estreme”; o ancora spettatori vezzeggiati, coccolati, coinvolti, per un intrattenimento leggero oppure, all’opposto, in “maratone” che gratificano soprattutto gli addetti ai lavori. Attori che guardano attori.
Intanto perdiamo di vista i “fondamentali” del rito, dimentichiamo la storia, la preparazione, la tecnica, il patrimonio del passato, la necessaria rivoluzione cui mirare, sempre e comunque.
C’è chi combatte, strenuamente, e siete tanti: autori, registi, tecnici, danzatori, attori (declino al maschile ma ovvio che non è questione di genere). Ve ne dobbiamo rendere merito.
C’è chi resiste, nonostante tutto. Chi coglie ogni minima occasione pur di dire, di denunciare, di regalare pensieri e riflessione. Anche quest’anno, come ogni anno. E questo ancora ci salva (salva anche noi spettatori), ci spinge a dicembre ancora con la voglia di vedervi in scena. Sperando in quell’incanto che quando arriva sbaraglia, commuove, muta profondamente ciascuno di noi.
Ma siamo stanchi, esausti. Tutti fanno tutto, tutti devono fare tutto. E poi si crolla. Dice Byung-Chul Han «il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività».
Costretti a essere positivi, a pensare, a progettare, a inventare ogni mese, un debutto nuovo, uno spettacolo nuovo, un gruppo nuovo. E chi ce la fa?
La rivoluzione non si fa da stanchi, semmai da esasperati. Evidentemente ancora non siamo esasperati.
Dovremmo interrogarci sul senso del sistema teatrale, su quale cultura teatrale proponiamo o viviamo. Chiederci perché il Fus sia sempre così ridotto: un cane alla catena, è il teatro.
È chiaro, questo governo non ha la cultura e lo spettacolo tra le sue priorità.
Non c’è nulla che possiamo fare? Siamo d’accordo?
Il teatro, diceva Nicola Chiaromonte, come tutto nella vita, si tratta di farlo o di subirlo: insomma, di viverlo o di patirlo, tanto più nello stantio tran tran dell’algoritmo. Quest’anno abbiamo visto spettacoli belli, alcuni bellissimi, abbiamo scoperto nuovi talenti, abbiamo onorato con riconoscimenti e premi tante eccellenze. Ma dietro al sorriso smagliante, dietro la soddisfazione dell’applauso, a me pare di sentire, come un brivido, la livida amarezza del disincato. Mi sbaglio?
Care attrici, cari attori (e voi registi, organizzatori, tecnici, coreografi, danzatori) riprendete a sognare. Riportate in questo paese sempre più cupo, fascista, teso, razzista, la bellezza terribile dell’arte, la forza splendente della poesia.
(NB: Le immagini firmate da Katia Kravtsova non hanno alcun riferimento diretto con gli argomenti trattati nell’articolo. Sono tratte dal bell’allestimento di Masquerade, regia di Valery Fokin, visto a San Pietroburgo nell’ambito del Premio Europa per il Teatro 2018, che ringrazio per la gentile concessione)
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