Teatro

L’eroe autistico

1 Aprile 2019

Le seguenti riflessioni nascono dalla visione di un film: Coriolanus di Ralph Fiennes, riscrittura geniale della tragedia di Shakespeare.

Nel capitolo dedicato a Shakespeare, in Mimesis (Il principe stanco), Erich Auerbach analizza come la commistione degli stili inauguri nel teatro di Shakespeare una nuova concezione del sublime tragico. La contrapposizione dell’eroe al resto del mondo non si limita più a una distanza di classe, di stile anche linguistico, ma introietta nell’eroe stesso una divisione che non è più o non è solo psicologica o ideologica, bensì il banco di prova su cui si scontrano le divisioni del mondo. L’ultimo Euripide già configurava qualcosa di simile.

Ma Shakespeare scalza via secoli di confini stilistici tra i generi. Dal punto di vista strettamente psicologico e ideologico, Coriolano non è un nemico del popolo, della plebe, ma lo è anche dell’aristocrazia, alla quale appartiene, lo è di sua madre, dalla quale dipende. E, nel profondo, lo è di sé stesso. Non intrattiene rapporti condivisi con nessuno, non con la moglie, non con il figlio, non con Menenio e gli altri nobili. In qualche modo la madre non gli ha dato solo la vita, ma lo ha modellato così com’è. Il tuo orgoglio lo hai preso da me, ma la tua ostinazione è solo tua, gli dice Volumnia. L’ostinazione, tuttavia, è l’unico strumento che ha Coriolano per opporsi a ciò che gli altri vogliono fare di lui. E’ destinato a soccombere, e in qualche modo la sconfitta è da lui stesso prevista, e dal momento che la vede inevitabile, la cerca come una forma eroica di suicidio, una riaffermazione della propria singolarità, della propria solitudine, estraineità al mondo che lo vorrebbe adoperare per fini che non lo riguardano.

Beethoven lo ha intuito meglio di altri, questo eroismo autodistruttivo. Anche se la famosa Ouverture non per la tragedia shakesperiana, ma del Collin, vi si fissa musicalmente la figura di un’ossessione, di una fuga dalla realtà, di uno scontro, anzi, con la realtà stessa. La concisione monotematica corrisponde all’idea ossessiva di un unico pensiero.

L’unica persona che Coriolano potrebbe amare è, però, il suo nemico, Aufidio, il quale lo ricambia con una uguale, e come per Coriolano, anche per lui fortissima attrazione, che perepisce reciproca, ma irrealizzata e può darsi irrealizzabile, si vedrà perciò alla fine costretto ad annientarlo, quest’oggetto di un odio ch’è amore, proprio per lasciarsene possedere: My rage is gone, / And I am struck with sorrow. Struggente, quest’ultima scena, nel film di Fiennes. Aufidio abbraccia stretto Coriolano, e sembra in quel punto che Coriolano non aspetti altro. Aufidio gl’infilza il pugnale nel petto, e nello stesso tempo, mentre Coriolano agonizza, lo bacia teneramente sulla tempia, accompagna delicatamente la caduta dell’eroe morente, tenendolo sempre avvinto, strettissimi, la bocca quasi sulla bocca, fino a che l’eroe solitario, finalmente abbracciato, si stende per terra. Il film si chiude qui. Tagliato il commiato finale e il discorso celebrativo.

Retrospettivamente questo amplesso illumina tutta la vicenda: la solitudine di Coriolano trova una corrispondenza sentimentale soltanto nel congedo dalla vita. Poco prima, alla madre, Coriolano aveva detto: gli dei ridono guardando questo spettacolo mostruoso. Lo spettacolo mostruoso è il cedimento alle preghiere della madre, il salvataggio di Roma, la città che lo respinto, cacciato e che lui ormai odia, perché deve odiarla, ma che forse odiava anche prima, se ha potuto dire che più di ogni Romano, l’unico con il quale si sentiva di potersi confrontare da uguale era un non Romano: il Volsco Aufidio. E adesso, quasi con dolcezza, si lascia morire tra le sue braccia. Coriolano è l’eroe dei doveri negativi, dell’obbligo di compiere ciò che in realtà lo distrugge, perché solo distruggendosi può rappacificarsi con un mondo che lo rifiuta, perché in realtà Coriolano in quel mondo è un estraneo, è anzi un alieno.

Non è l’unica volta che nel teatro shakespeariano si affaccia un’attrazione omoerotica. Il Coriolano è l’ultima tragedia di Shakespeare, andata in scena probabilmente nel 1608, dopo verranno i romances, Pericle, il Racconto d’inverno, la Tempesta. Otto o nove anni prima era andato in scena The Twelfth Night or What You Will, la dodicesima notte o ciò che volete, commedia tratta, tra altre fonti, da una bellissima commedia degli Accademici Intronati di Siena, Gli Ingannati. Nella prima scena del secondo atto, Antonio, un capitano albanese, così parla della sua amicizia per il giovane Sebastiano, al quale aveva salvato la vita:

The gentleness of all the gods go with thee!
I have many enemies in Orsino’s court,
Else would I very shortly see thee there.
But, come what may, I do adore thee so,
That danger shall seem sport, and I will go.

Aufidio è più esplicito, e indirettamente cita la Bibbia: Samuele, II, 1,26. E abbracciando Coriolano, un abbraccio d’amizciia, questo, mentre quello finale sarà di morte, una morte che sostituisce un amore, impossibile tra i due, anche se solo tra loro due, forse, un amore sarebbe amore, abbracciandolo, con il “cuore estasiato (rapt heart) che gli balla nel petto”, Aufidio dice a Coriolano:

I loved the maid I married; never man

Sighed truer breath. But that I see thee here,

Thou noble thing, more dances my rapt heart

Than when I first my wedded mistress saw

Bestride my threshold.

Il lamento di David per la morte di Gionata, in questi versi, è citato quasi alla lettera:

Io sono in angoscia per te, fratello mio Gionathan;

tu mi eri molto caro,

il tuo amore per me era meraviglioso

piú dell’amore delle donne,

che Shakespeare, però, leggeva nella versione inglese:

I grieve for you, Jonathan my brother;
you were very dear to me.
Your love for me was wonderful,
more wonderful than that of women.

Intorno a questo scontro-incontro di due eroi solitari è costruita tutta la tragedia. Come se la solitudine, l’isolamento di Coriolano non potesse trovare altro sbocco d’intesa che in un abbraccio di amore e di morte.

 

Ma Shakespeare è drammaturgo e poeta assai più complesso che l’ideatore di una vicenda che abbia una sola chiave d’interpretazione. Coriolano è un isolato perché non sa mentire, non sa dissimulare le sue passioni, come gli rimprovera la madre. E la politica costruisce il successo solo sulla dissimulazione. Come aveva già spiegato Machiavelli. Coriolano non dissimula il suo disprezzo per la plebe, ma non nasconde nemmeno il suo disgusto per gli intrighi politici della classe alla quale appartiene.

Le tre tragedie romane di Shakespeare, Giulio Cesare, Antonio e Cleopatra e Coriolano, ruotano tutt’e tre sull’incertezza del favore popolare, sull’ambiguità degli appoggi politici. Bruto e Antonio strappano, uno dopo l’altro, in pochi minuti, opposte reazioni dalla folla ad entrambi di volta in volta plaudente, odio per il tiranno Cesare e subito dopo odio per i tirannicidi. Antonio, come Coriolano, soccombe anche lui ai colpi dell’astuzia politica, nel suo caso di Ottaviano, ma a differenza di Coriolano fa il tentativo di misurarsi anche lui con questi giochi di astuzia politica, punta le sue carte su un matrimonio conveniente. Coriolano no, Coriolano è un puro. E sta qui l’ironia tragica del personaggio, perché a perderlo sarà proprio questa sua purezza, il rifiuto di scendere a compromessi, sia con la plebe che detestata lo detesta, sia con gli aristocratici, che lo giudicano superbo e che lui disprezza per la loro disonestà politica.

Sia l’impacciata astuzia di Antonio, però, che l’ostinato rifiuto dell’astuzia da parte di Coriolano sacrificano una donna: la sorella di Ottaviano, Ottavia, e la “silenziosa” Virgilia, moglie di Coriolano. E’ Coriolano stesso ad apostrofarla con questo attributo: My gracious silence, hail ! (Atto II, 1) Virgilia è sorella di Ofelia, di Cordelia, di Ottavia, di Imogene, di tutte le eroine shakespeariane che alla sopraffazione oppongono il silenzio della propria tenerezza. In mezzo a questi rapporti che solo apparentemente stringono un legame condiviso, la madre, la moglie, la propria classe sociale, Coriolano intuisce che l’unico rapporto stabile, l’unico legame non ambiguo, è il confronto del condottiero con un altro eroe militare, del generale con il condottiero nemico.

L’attrazione omoerotica non è, allora, che la manifestazione esplicita di un legame più profondo, alla pari, tra due solitudini guerriere. E la solitudine guerriera è a sua volta una maschera dell’incapacità di rapportarsi agli altri. Tema quanto mai shakespeariano. Lo troviamo, struggente, disperato, in Amleto: “But thou wouldst not think how ill all’s here / about my heart: but it is no matter” (V, 2). Era la malattia dell’epoca, la Malinconia, mirabilmente incisa da Dürer, spiegata da Aristotele nel Problema XXX, definita dai medici del tempo. Oggi la chiameremmo depressione. Amleto n’è consapevole. Coriolano no. Una sorta di estraneità alla vita, ai giochi della vita, politici e amorosi. Prospero, dopo aver creduto di potersene impossessare, abbandona gli strumenti di questo illusorio possesso.

Potrebbe anche essere il teatro, il regno dei sogni – e degli incubi – la recita di un mentecatto, come crede Macbeth, o, più genericamente, il gioco stesso della vita, come suggerisce As You Like It. Ma il soggetto che dovrebbe giocarlo, in un modo o nell’altro, ne esce sempre sconfitto, anche quando, come Prospero, non se ne lascia schiacciare, ma lo abbandona. Non sappiamo se Shakespeare nutrisse in petto una fede, c’è chi lo dice addirittura cattolico. Il suo teatro ci mostra un cielo vuoto di qualsiasi presenza divina. O se qualcuna se ne può figurare, è quella di dei che ridono dello spettacolo delle nostre azioni, come Coriolano dice alla madre nel colloquio fatale.

Forse ha ragione Nadia Fusini (Di vita si muore, Mondadori, 2010) quando scrive che qualunque spettatore alla vista di Lear che entra in scena con il cadavere della figlia, alla fine della tragedia, troverebbe assai improbabile in quel momento raffigurarsi una presenza divina nei cieli, se si spalancassero. E’ questa solitudine, questa desolatissima solitudine, che anche nel Coriolano, ci strazia, più che il cuore, la mente. Al punto che proprio la solitudine, assunta non più come condizione inevitabile, ma condensata volutamente nel rifiuto d’ogni rapporto con gli altri e con il mondo, in una sorta di autismo dell’esistente nei confronti dell’essere, finisce per essere, se non la medicina, certo la fuga proprio dal dolore stesso di questa ineluttabile solitudine del vivente, al quale, mutilato d’ogni speranza, e sempre privato proprio di ciò che lo fa vivere, gli dei ridenti non lasciano altro scampo che l’annientamento, che lo sprofondare, finalmente, nella quiete del nulla.

Mi accorgo che sul film non ho finora scritto nulla. Ma chiunque, vedendolo, potrà trovare conferma a questa riflessioni che la sua visione mi ha suggerito. E’ uno Shakespeare d’inaudita violenza, ma anche di disperata intensità emotiva, di profondo struggimento con momenti di altissima tenerezza e malinconia nella figura di Virgilia (Jessica Chastain). Vanessa Redgraves disegna con efficacia impressionante la volontà di potenza della madre Volumnia. Potrebbe quasi sembrarci una raffigurazione della Regina Vergine, di Elisabetta. Ma da parte della grande attrice (come doveva essere anche la Regina) senza mai andare sopra le righe, con fredda e calcolatissima discrezione, ma anche con inflessibile fermezza. Solo quando Volumnia vede crollarle addosso tutto il mondo che ha costruito per il figlio, e lo vede crollare proprio a causa dell’ostinazione del figlio, i suoi occhi conoscono la debolezza delle lacrime.

 

Qualcuno ha trovato poco incisiva l’interpretazione di Gerard Butler nella parte di Aufidio. Ma se sta invece lì tutta la sua forza! E’ apparentemente un mediocre, rispetto al furore protagonistico di Coriolano, ma questa sua parte di deuteragonista, questa sua parte di uomo normale, con i piedi piantati per terra, l’opposto di Coriolano, si direbbe, costituisce invece il modello perfetto di ciò che Coriolano vorrebbe essere, un uomo normale, capace di amare, al di là dell’odio, un odio universale, un odio per tutti, che sembra manifestare come passione prevalente. E segretamente, commosso come da nessun altro, Coriolano intuisce che proprio da costui, dal suo nemico, è amato per chi è, e non per ciò che si vorrebbe da lui. In due momenti i due si riconoscono. Quando Coriolano gli offre la propria alleanza, e Aufidio esplode in un sussulto di gioia (il cuore estasiato mi balla nel petto) e quando infine si lascia uccidere, e l’amplesso mortale si fa, od è, quasi, o forse per intero, un amplesso d’amore.

Altro merito di questo film è il rilievo che assume il personaggio di Menenio (Brian Cox). Desolatissimo il suo suicidio sulla riva del fiume. Ma poi c’è lui, Ralph Fiennes. Incredibile la fluidità della sua recitazione, la musicalità con cui intona – alla lettera: canta – il blank verse. Ma senza enfasi, senza esibizionismi mattatori. Indimenticabile la ripetizione di “boy”, ragazzo, moccioso, lanciata in faccia ad Aufidio per spingerlo all’aggressione, per farsi ammazzare da lui e da nessun altri. E la dolcezza disperata di quel “gracious silence” sussurrato alla moglie. Infine la Serbia distrutta dalla guerra degii Stati Iugoslavi come immagine delle guerre intestine di Roma. Ma specchio, anche, delle guerre di oggi, sparse ai quattro angoli del mondo, a ribadire la terribile contemporaneità di Shakespeare, che quando parla dei Romani, o delle due Rose, o dei Capuleti e Montecchi, sta sempre parlando di noi, e di noi, adesso. E non sembra prevedere che gli orrori finiscano: ci sarà sempre un Senato che opprime la plebe, due casate rivali che devastano e saccheggiano un paese, clan mafiosi che si distruggono a vicenda. In mezzo, le vittime, gli innocenti, quelli che non mentiscono: Romeo e Giulietta, Riccardo II, Coriolano, e in fondo lo stesso Aufidio: I am struck with sorrow.

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