Teatro
“Lemnos”, nell’isola di Filottete il lager degli antifascisti
Una luce violacea e arancio si distacca dalla linea nera della notte. Accompagna il viaggio di Odisseo e Neottolemo per recuperare Filottete, in esilio forzato nell’isola di Lemnos da dieci anni: solitario e malato, abbandonato dai propri compagni in quel lembo di terra perché pericoloso: un intellettuale sovversivo che con le sue idee poteva minare il morale delle truppe lanciate all’assalto di Troia. Adesso l’arco e le frecce di Eracle potevano tornare utili per cambiare le sorti del conflitto. Questa è la mission dell’improbabile duo che si sta recando a prenderlo. Il primo è il figlio di Laerte, cinico e calcolatore, sempre dietro gli inganni e le ragioni di una politica politicante. L’altro è un giovane, figlio di Achille e amico di Filottete: titubante nell’assecondare fino in fondo il tranello escogitato da Odisseo/Ulisse. Diecimila anni dopo siamo ancora a Troia. Nell’allestimento, acuto come lama di lancia – ripreso dalla tragedia di Sofocle e dai versi del poeta Ghiannis Ritsos – regia, video e scene di Giorgina Pi, visto giorni fa nella Sala Mercato del Teatro Gustavo Modena di Genova – tra le parole aspre del re di Itaca e del titubante rampollo di Teti capitombolano quelle di chi combatte in Ucraina. Dentro la guerra fino al collo. Confusi e dimentichi del male che ha colpito il mondo di ieri e ora miete nuove vittime. Ignari e immemori del fascismo che quei disastri ha causato e provoca ancora.
In uno spazio scenico fortemente in chiaroscuro, messo a nudo e illuminato sapientemente da Andrea Gallo, si vede a sinistra un pianoforte, al lato opposto si scorge appena l’antro in cui Filottete sta dormendo. Una figura femminile regge in mano la bandiera rossa del Partito comunista greco, il KKE. Accenna nella penombra alcuni passi di danza, getta il drappo e scompare. Sullo sfondo un grande schermo rilancia le immagini del viaggio in auto dei due Achei, tra curve e strade sconnesse illuminate appena dal giallo dei fari.
Inizia in questo modo, intrecciando classicità e storie dell’altro ieri, cinema e memoria, un’opera di segno forte e austero. “Lemnos” è una immersione nella parte oscura di chi usa le armi del potere per governare gli uomini, ma anche la realtà di chi si oppone. Una linea di divisione non sempre netta, spesso frastagliata, ma reale: separa l’umanità come il grano dal miglio. Chi tesse le trame e chi le disfa, chi rinforza le grate e chi le divelle. Cosa spinge Odisseo a tornare laddove dieci anni prima fece abbandonare il proprio compagno? La sete di potere e di conquista. Senza le armi di Filottete non cadrà Troia. Ma l’eroe di Lemnos ormai odia gli Achei, e tanto più vede come fumo negli occhi il principe dell’inganno e della simulazione, responsabile primo del suo esilio. E che ha un piano diabolico: usare il giovane Neottolemo per riportare a Troia l’arciere oppure portargli via le armi. Da una parte l’eroe di dirittura morale, colui che tra gli Achei era una colomba in mezzo ai falchi, dall’altra un calcolatore, figura di uomo di potere che, attraversando il Medioevo, porterà al “Principe” del Machiavelli. Alla sommità del triangolo del dramma sta Neottolemo destinato ad assumere un ruolo protagonista. E’ un giovane sulle cui spalle ricade l’ingombrante eredità del padre, il leggendario Achille. Ha fatto il viaggio sino all’isola con Odisseo, ascoltando fino ai limiti della sopportazione le sue parole e condividendo un piano mal disposto nell’animo. In cuor suo dubita dell’operazione, anche se è ligio al dovere di obbedire alle autorità. Odisseo è stato avaro di parole su Filottete: “è su quell’isola da dieci anni. Solo. Chissà com’è diventato. Lo avevamo lasciato lì perché non era possibile fare altrimenti. Ce l’ho lasciato io stesso, per ordine dei capi. Era scomodo, un oppositore. Andava allontanato, come quelli come lui”.
Neottolemo tenta una fuga. “Non so se sono la persona più adatta a convincere uno sconosciuto” dice a Odisseo che invece, sicuro del contrario, gli dà le istruzioni per agire. Dopo aver rivelato a Filottete di essere figlio di Achille dovrà riferirgli che sta tornando a casa “abbandonato l’esercito dei Greci per un odio terribile contro di loro. Di me dì pure quello che vuoi, il peggio del peggio. Non me ne importa niente. L’importante è che tu lo convinca. Ingannalo, digli che lo riporterai a casa, non alla guerra. Se fallisci, farai un male grandissimo al nostro Paese. In questi ultimi anni ci sono stati tanti morti. Le truppe ne risentono. Ci sono state troppe diserzioni al fronte. Siamo messi male. È dura continuare a combattere se si ha la sensazione che gli dei stiano con l’altra parte”.
Filottete è in fondo una persona fragile, debilitato dalla malattia e Neottolemo non è insensibile, a differenza di Odisseo, per il quale ciò che conta è il risultato. Appare evidente come anche nel testo sofocleo ci fosse sottintesa la critica alla società incapace di intervenire in casi dove è invece necessaria la solidarietà e la comprensione dello stato di debolezza dei cittadini.
Secondo Alessandra Grompi nello studio su “Il Filottete di Sofocle: una riflessione su vulnerabilità e politica” (in “Genero&Direito”, periodico del Centro di Scienze giuridiche dell’Università federale di Paraiba, 2016) sostiene come Filottete sia diventato suo malgrado simbolo del soggetto vulnerabile. Abbandonato e ingannato per sottrargli l’arco, il suo bene più prezioso, dovrà essere riammesso nella società per motivi strettamente politici: la caduta di Troia. Ma nei fatti, proprio “Il sorgere dell’amicizia sincera tra lui e Neottolemo romperà gli schemi del piano fraudolento”, un “mood” sostanzialmente riconosciuto pure in questo allestimento che cita anche il poeta greco Ghiannis Ritsos autore di un poemetto su Filottete.
E’ proprio la vulnerabilità a mettere a nudo la trama e far “fallire l’azione basata sul puro interesse…”. “La vulnerabilità è inquietante” sostiene Erinn Gilson, autrice di “The Ethics of Vulnerability (A Femminist Analysis of Social Life and Pratice, 2014) in quanto espone alla fallibilità, alla mutevolezza, all’imprevedibilità e incontrollabilità degli eventi. Una tale esperienza perciò “può provocare paura, difese, evitamento e disconoscimento. In questo senso, la vulnerabilità costituirà la cartina tornasole che contribuirà a mettere in luce gli autentici atteggiamenti dei protagonisti nei confronti di questa condizione, connaturata e tuttavia mistificata, ineliminabile, ma fondamentalmente negata”. Un salto indubbiamente notevole nel campo delle relazioni, nello scoprire quel senso di fragilità che appartiene a tutti. E, forse non è per niente un caso che, tra i motivi per cui Giorgina Pi abbia affidato all’ottima Gaia Insenga il ruolo cardine di Filottete, claudicante e con stampella ma con il fuoco dentro, ci sia quello di segnalare come, anche all’interno di un mondo maschile e guerresco, quale è quello di quest’opera, il tema della vulnerabilità vada ben oltre l’appartenenza di genere.
Per Filottete si va anche al di là. La sua è una malattia cronica. Una piaga diventata putrida dopo dieci anni a causa di una ferita riportata quando si trovava con Achille nell’isola di Crise per fare sacrifici ad Apollo. Qualche fonte parla di ferimento con le proprie frecce, ma la causa indicata più frequentemente è il morso di un serpente. E a Neottolemo così l’esule racconta il dolore fisico e morale. “Tuo padre ti avrà certamente parlato di me, di Filottete. Ti avrà raccontato che i due capi dell’esercito, nemici anche suoi, dieci anni fa hanno ordinato di allontanarmi. E che quindi mi hanno indegnamente lasciato qui solo, divorato da un male selvaggio che mi toglieva la voglia di vivere. Ero in disaccordo con loro, come sempre. Sapevo troppe cose che sono diventate il mio male. Mi hanno portato qui e se ne sono andati come erano venuti, con le navi. Hanno aspettato che mi addormentassi per partire. Erano ben lieti di abbandonarmi e di andarsene. Tu pensa quale è stato il mio risveglio quando mi sono accorto di essere rimasto solo. Piangevo, mentre le navi con le quali ero venuto apparivano sempre più lontane”.
La piaga, le urla per il dolore, l’odore della ferita sono il motivo apparente, in realtà gli Atridi l’uomo che intendono colpire è il politico. Colui che sa “troppe cose che sono diventate il mio male”.
Neottolemo è uomo dal forte senso di giustizia. Ma anche fedele all’autorità e alle istituzioni che, tramite Odisseo_ nei fatti il suo controllore _ deve servire. Recita quindi la parte del piano del figlio di Laerte non senza ripensamenti. Raccontando la storiella delle armi del padre prese da Odisseo e della sua fuga da Troia per ingraziarsi Filottete e incassare la disponibilità di quest’ultimo a salire a bordo della sua nave. Un piano perfetto che scompare prima davanti al racconto di Filottete, poi per le lacrime versate per Achille di cui viene a sapere della scomparsa sul campo di battaglia. E così anche di Patroclo e Aiace Telamonio.
Nasce un inedito rapporto d’amicizia. Il Coro, una impeccabile Alexia Sarantopoulou, attrice greca di solida presenza descrive in lingua originale il passaggio scritto di pugno dalla stessa Giorgina Pi: “Filottete dalla testa bianca come l’onda arricciata a tratti sorrideva. Continuarono a parlare ancora un po’. Provava una innata fiducia per questo incontro inaspettato. Neottolemo sembrava ascoltarlo con attenzione. Ma non saprei dire esattamente cosa gli dicesse”. A seguire i versi del raffinato poeta Derek Walcott: “Guerre. Guerre sguscianti come la bruma sul mare, ma i loro morti erano veri”.
Il piano di Odisseo, un militaresco (anche negli abiti) e sferzante Giampiero Judica, ha funzionato, ma il caso di coscienza divora dall’interno il giovane Neottolemo, impersonato da un tormentato e ispirato Gabriele Portoghese. Ma questo è l’attimo in cui si mescolano gli anni annullando la distanza dei secoli, che Lemnos diventa Makronisos, isola simbolo dell’infamia.
Che la vicenda di Filottete rifletta quella di altri uomini abbandonati a scomparire dalla memoria e dalla storia… Il Deus ex, un dio “monco” e senza “machina” (la brava Aurora Peres) racconta la storia di quest’isola dove una volta c’erano uomini e donne che “dormivano in tende poggiate sul terreno brullo, piangevano di notte al vento che fischiava per coprire i loro lamenti, subivano torture ogni giorno.
Venivano costretti a camminare su un solo piede o a strisciare… attorno a loro guardie senza pietà dicevano alla persona torturata “più ti difenderai, più soffrirai”. E i vivi disposti intorno a lei erano costretti a far parte di una commedia crudele”. Come Filottete, uomo che “vorrebbe tornare a casa ma non in patria” c’è un “un altro che pur di non tornare a casa fa durare la guerra in difesa della patria. E di un altro più giovane che non ha mai potuto scegliere tra l’una e l’altra. Hanno tutti paura in fondo di tornare. Per qualcuno che non torna c’è sempre qualcuno che aspetta”.
Ci vuole la “struggente tenerezza” di Cesare Pavese per cesellare il dolore: “Se qualcuno mi avesse veduto nel cuore, avrebbe trovato una struggente tenerezza per quella vita e i silenzi, gli sguardi, gli incontri e al centro un vuoto, uno sgomento, un’angoscia”.
Risponde il Coro che è lì per osservare: “cronista di un mondo antico traspongo l’orrore in parole”. Qualcuno insomma che “prova a portare testimonianza” raccontando di fatti lontani accaduti in un’isola dell’Egeo. Suggerisce Walcott: “Per fare quello che il passato sempre fa: soffrire e guardare”.
E’ ancora la Grecia con il prezioso patrimonio letterario ad aprirci gli occhi sul presente e bloccare l’obliterazione della memoria. A ricordare come, nei giorni in cui in Europa si celebrava il ritorno alla democrazia, nel 1946, in Grecia si combatteva una guerra civile. Il Peloponneso era allora al centro di forti interessi geopolitici di America, Gran Bretagna e Russia. I primi due non volevano un’espansione dei sovietici, gli altri, allo stesso tempo, intendevano tagliare fuori gli jugoslavi con cui erano alla rottura. Risultato fu l’inasprimento di uno scontro, nei fatti iniziato già dal 1944, che vedeva le forze di sinistra, in primis i comunisti, combattere contro il governo della destra sostenuta da Usa e Regno Unito. Nel 1967 avviene il golpe dei colonnelli che restarono al potere sino al 1974. A partire dal 1947 e fino a quella data a fasi alterne l’isola di Makronisos _ qui assimilata a Lemnos _divenne un campo di concentramento per migliaia di oppositori al regime conservatore e poi alla dittatura.
“Il governo sceglie quest’inferno per piegare la libera volontà dei combattenti della Resistenza, in Europa dopo la seconda guerra mondiale. E qui concentra tutta la macabra esperienza dei ghetti hitleriani insieme ai nuovi metodi della violenza psicologica”.
Makronisos: una macchia che non si può cancellare, un ricordo impossibile da spazzare via con un colpo di spugna. Qui vennero commesse ingiustizie e atrocità sulla pelle di donne e uomini, violenze, torture. Internati intellettuali, operai, disertori, lavoratori dello spettacolo, letterati e musicisti come Mikis Theodorakis e Ghiannis Ritsos. Il ricordo di quel triste luogo corre parallelo al dramma sofocleo, grazie anche ai versi di quest’ultimo geniale poeta.
Racconta Filottete a Neottolemo: “Ho odiato quest’isola per tutti i fantasmi che vi ho incontrato. Alcune notti mi sembrava di sentire incessanti le grida di dolore di quanti come me sono stati qui. Qui sull’isola ho sperimentato la morte scegliendola. Non serve la guerra, non serve ammazzare qualcun altro per scoprire quanta voglia hai di morire tu. Voler morire non significa voler ammazzare”.
In questa riscrittura da Sofocle il transfert Lemnos-Makronisos è compiuto. Il salto temporale ha annullato le distanze emettendo una sentenza inequivocabile di condanna per la malvagità del potere fascista. Un altro ricordo dell’arciere è un ulteriore pezzo di un reportage amaro da un luogo di sofferenza. “Ho trovato abbandonato, nell’altro capo dell’isola, nel padiglione, un tavolino insieme ad altri resti di quando qui era pieno di reietti come me, di confinati e l’ho usato immaginando di scrivere come avevano fatto tutti quelli prima di me. Ti sei accorto che ci sono scritte sulle rocce? Se guardi bene troverai nomi amati, richieste d’aiuto, promesse alle stelle. Giorno dopo giorno scoprivo bigliettini sotto ai massi, quaderni quasi cancellati che ho riempito dei miei sogni. L’isola stessa era diventata un sogno”. Sogno di separati, lontani dall’altrove. Forse “…per alcuni istanti è meraviglioso ma poi ti accorgi che non è più l’isola ad essere separata dal continente, sei tu che ti ritrovi separato dal mondo. E precipiti nel vuoto. Come posso spiegarti tutto quello che ho provato?”.
Neottolemo confessa a Filottete l’inganno. Cerca di abbracciarlo ma l’arciere deluso lo caccia via. Escono di scena. Si ode una musica al piano. E’ Neottolemo che canta… come un lamento.
Deus ex usa i versi di Adrienne Reich per prendere le distanze: “… Posso davvero dire di non essere stata io/ iscritta tra gli innocenti/ a tradirvi quando servivo/ le ragioni del mio governo/ convinta che ci fossimo ritagliati un posto/ dove la poesia vecchia forma sovversiva sorgesse da nessunluogo qui?/ dove pelle potesse giacere contro pelle/un posto “fuori dai confini…”
Il racconto di Makronisos. Deus ex riporta la memoria sull’isola che il governo di destra aveva trasformato in un campo di concentramento per comunisti o presunti tali, disertori e civili. Persone che rifiutavano di rinnegare la loro fede politica. Il governo sceglie la linea dura anche con metodi di violenza psicologica. I partiti di sinistra KKE, ELAS e Epon messi fuori legge, a migliaia sono giustiziati. Cinquantamila imprigionati e decine di migliaia gli esiliati. Chi voleva salvarsi doveva firmare la “dilosi”, dichiarazione pubblica di pentimento per essere stato comunista. Una dichiarazione per fuggire la tortura e la morte ma che in sostanza significava “che hai perduto il controllo delle azioni e la fiducia in te stesso”. Quindi “devi umiliarti, renderti ridicolo, disprezzarti totalmente. Dopo la dichiarazione di lealtà iniziano le torture e le pressioni psicologiche per costringere a un rinnegamento pubblico sul campo, con lettere aperte alla città d’origine. A chi aspetta che tu torni vivo”.
L’incontro tra Filottete e Odisseo – rimasto in disparte per tutto il tempo- arriva con la tempesta e la pioggia. Il confronto è una resa dei conti. Odisseo parla mostrando quello che realmente è. Non c’è in lui alcuna compassione per lo stato di Filottete ma solo considerazioni utilitaristiche dettate dal pragmatismo, se non la giustificazione di compiere una missione voluta dai capi e dagli Dei. Dubbi zero, morale zero. Il dialogo tra i due è incalzante. Battuta su battuta.
Filottete: Mi hai lasciato qui a morire.
Odisseo: Sapevo che saresti sopravvissuto.
Filottete: Sopravvissuto? Mi hai tolto la vita.
Odisseo cerca di trovare un punto d’incontro evocando un comune destino e rilancia:
“Ma da dove credi che venga? Come credi che ho vissuto in questi infiniti anni? Io non vivo nel mondo in ogni caso. Io vivo anche al di sotto di esso, molto vicino a dove vivi tu”.
Per rispondere, Giorgina Pi sceglie le parole di una intellettuale di valore come Hélène Cixous, autrice del Theatre du Soleil, dove lavora a stretto contatto con Arianne Mnouchkine.
Filottete (da Hèléne Cixous): “Ma lo sai come ho vissuto io in questi anni?
Come superavo le giornate qui, da solo? Dicendomi che c’era un altrove.
Esiste un luogo che non è obbligato a tutte le bassezze e a tutti i compromessi.
E questo luogo è la scrittura. È lì che andavo….”
Rispondendo a tono al figlio di Laerte, l’uomo di Lemnos indica nel vivere lontano “un’anti-terra dove non esistevano ingiustizie senza che qualcuno insorgesse. Dove c’erano persone pronte a tutto, a vivere, a morire, per delle idee giuste. E dove essere generosi non era impossibile o qualcosa da deridere”. Infine: “Ho fatto la guerra davanti a Troia alla mia maniera: né da una parte né dall’altra. Vomitavo l’imbecille mentalità meschina dei capi. Cosa servivate? Una gloria narcisistica. Cosa amavate? La vostra immagine regale”.
Odisseo definitivo: “Io sono quale mi richiedono le circostanze. Esigenza della mia natura è vincere sempre. Quando si fa qualcosa in vista di un guadagno, non bisogna esitare. Mi credi meno triste di te perché io accetto e nascondo la mia anima tormentata? Tu non mi conosci Filottete…”
Interviene Neottolemo: il fronte della missione si è ormai spaccato. Il figlio di Achille, restituite l’arco e le frecce a Filottete, ha abbandonato Odisseo non senza tensioni, e ora prende sotto la sua ala l’arciere. Parla a nome dei suoi coetanei: “Noi più giovani di voi, noi figli, siamo stati chiamati, come qualcuno dice, all’ultimo momento a mietere la gloria preparata dalle vostre armi”… ma certamente “di una simile gloria avremmo fatto a meno: chi l’ha chiesta?”.
Neottolemo comprende le resistenze di Filottete a prendere il mare ma lo implora di seguirlo a Troia, promettendo di curarlo e stargli accanto. Nel suo discorso distante anni luce da quello di Odisseo mostra che può esistere un’altra idea della politica: dove si può scrivere anche la parola solidarietà: una società deve prendere cura anche di quelli più deboli. L’altra parola è il dissenso: diritto di parola a chi la pensa diversamente.
E’ il figlio di Achille rivolgendosi a Filottete a far calare il sipario: “Vieni a vedere quello che hai previsto.Vieni a vedere con che bottino abbiamo scambiato tanti morti, con quali ostilità tra noi abbiamo scambiato i nostri vecchi amici.Tra i gemiti di vincitori e vinti il tuo sorriso sarà per noi una luce. Vieni, non ci servi solo per la vittoria ma dopo la vittoria, quando ci assalirà quell’ineludibile terrore della domanda: perché siamo venuti? Perché abbiamo combattuto? Dove e perché torniamo?
Giorgina Pi non accoglie il finale da deus ex machina di Sofocle. Segue l’esempio di Ritsos: non esiste un “happy end” ma diversi possibili finali. Lavorando su diversi testi, primo fra tutti l’opera originaria di Sofocle, ma anche e soprattutto il poemetto di Ritsos, inserendo contributi importanti da Colin Walcott ad Adrienne Rich, Giorgina Pi ha scritto un dramma contemporaneo originale, denso di poesia e di fresca attualità, ridisegnando per molti versi gli stessi personaggi. Ad iniziare da Neottolemo, un figlio del nostro tempo con le domande e la generosità che appartengono alle ultime generazioni. In Odisseo ha rafforzato i tratti di uomo, servo del potere, cinico e machiavellico lasciando a Filottete il compito di impersonare il ruolo di custode della memoria come di colui che esercita il dissenso. Curiosamente, a distanza di molti anni, ricorda per il coraggio di innovare e sperimentare – non certo per le soluzioni registiche e la poetica _un’altra messa in scena del “Filottete”, quella curata (1987) dall’allora giovane regista napoletano Mario Martone. In comune hanno lo stesso dramaturg: lo studioso Massimo Fusillo. “Lemnos” è un’opera politica che non rimane in mezzo al guado senza schierarsi, ma assume una posizione netta come in pochi fanno nel nostro teatro. E’ di primaria importanza, di questi tempi, riflettere su quanto accadde per anni, e neanche tanto tempo fa, nell’isola greca di Makronisos: un monito affinché certe storie non si ripetano e non si smetta mai di coltivare una memoria democratica e antifascista: quel che è accaduto ieri potrebbe ripetersi anche oggi. Non solo in Grecia, pure in Italia.
“Lemnos” è prodotta dal Teatro Nazionale di Genova, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, TPE Teatro Piemonte Europa, in collaborazione con Bluemotion e Angelo Mai. Fino a domenica in scena al Teatro Astra di Torino
Regia, video e scene: Giorgina Pi
Drammaturgia: Giorgina Pi con Bluemotion
Dramaturg: Massimo Fusillo
Ambiente sonoro: Collettivo sonoro Angelo Mai
Costumi: Sandra Cardini
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