Teatro
Lear, ovvero quel che resta della poesia
What is the cities but the people? Cosa è la città se non la sua gente? È quanto si chiede, più o meno, Sicinio nel Coriolano di Shakespeare.
Ed è una riflessione preziosa, da riprendere in epoca di festeggiamenti per il Bardo. Una domanda che potremmo applicare ai recenti referendum, alle prossime amministrative, o alla “monnezza” di Roma. Ma possiamo declinare questa domanda anche al piccolo mondo della scena: cosa è un teatro senza la gente che lo abita?
Noi critici – nelle miserie di questa professione – abbiamo il privilegio di girare per teatri di tutta Italia e incontrare le persone che li vivono e li fanno vivere. Volti conosciuti, spesso amati; voci che ci accompagnano da tempo; corpi tesi, sguardi, risate, incazzature, scontri: tutto un mondo, insomma, fatto di persone che sono teatro.
Arrivare al Teatro Era di Pontedera significa innanzi tutto incontrare quelli che lo abitano, che hanno combattuto per costruire questo spazio imponente: un gruppo di uomini e donne che, ragazzi allora, maturi oggi, si sono fatti carico di una poetica, di un modo di fare teatro che è anche pensiero sulla città e la società. Con errori ed eccessi, certo – chi non ne fa? – ma con passione e determinazione immutate negli anni, questo gruppo continua, ostinatamente, a inseguire la poesia.
Pensavo a tutto questo assistendo al Lear diretto da Roberto Bacci, messo in scena al Teatro Era con la drammaturgia essenziale e funzionale di Stefano Geraci.
Non era un Re Lear di Shakespeare, no. Era altro: un suggerimento poetico, vorrei dire.
Forse un haiku per la sua essenzialità. A interpretare il vecchio re, con consapevolezza, è Silvia Pasello: attrice storica della compagnia. In scena era anche la giovanissima figlia di Roberto, Maria Bacci Pasello. Con lei, gli altri attori (Michele Cipriani, Savino Paparella, Francesco Puleo, Caterina Simonelli, Tazio Torrini, Silvia Tufano), con quel modo di affrontare il personaggio e di porgere le battute che abbiamo imparato a (ri)conoscere negli spettacoli di Pontedera.
Su tutto, un’atmosfera, un clima, forse una tensione che è rito – chiave d’accesso di quel teatro che è stato matrice dell’esperienza del gruppo toscano.
Ritualità semplice, serena: rito laico, per carità, che è festa teatrale fatta di dionisiaco – con quelle maschere che gli attori indossano quando si fanno testimoni della vicenda che pure interpretano – e apollineo, nel distacco necessario che è stilizzazione della forma. Lo spettacolo è un piccolo affresco, scenicamente calzante, che mi sembra abbia valore più come metafora che non come lettura dell’opera di Shakespeare. Metafora di cosa?
Roberto Bacci da tempo sembra investigare due temi ampi, ampissimi. Lo stare al mondo, ossia il vivere in questo mondo: con una prospettiva-retrospettiva, quasi come l’angelo di Benjamin che vola guardando cosa lascia alle sue spalle. Un bilancio, insomma, esistenziale e poetico, privato e personale, teatrale e intimo, come quello che fa Lear alla soglia del ritiro.
Poi, complice la prosa di Geraci, si avverte un’empatica riflessione sulla (nostra) cecità: metaforica, anche in questo caso, incapacità di vedere, di capire, di cogliere il reale e le dinamiche relazionali profonde. Non resta che la parola, sembra dirci Bacci, l’eterno ripetere parole alla ricerca di un senso, mentre tutto sfugge. In Lear, e nel precedente lavoro Alla luce, vibra quella metafora sulla possibilità-impossibilità di vedere il profondo, di leggere se stessi.
Si avverte, insomma, un senso di melanconia, di compassionevole e comprensivo sguardo sulle umane vicende, pensando, sempre di nuovo, al necessario passaggio di testimone, alla complessa e irrisolvibile dialettica genitori-figli. Temi, dunque, che scorrono sottotraccia e che si mutano in rarefatta poesia.
Ecco, la poesia. Leggevo l’altro giorno una bella raccolta di scritti di Leonardo Sciascia, da poco pubblicato da Adelphi, Fine del Carabiniere a Cavallo.
E quel grande intellettuale (curioso che tutti rimpiangano Pasolini e pochi sentano la mancanza di Sciascia…) rifletteva anche sul ruolo dei poeti nella guerra civile spagnola, quando il verso poetico era militanza, era lotta, era pensiero condiviso. Era necessaria. I nostri poeti, invece, non sono stati né sono ascoltati.
La riforma del teatro in atto, poi, sembra propendere per una scena che sappia far cassa, destinata più che mai a “vendere” o “svendere”. Il botteghino detterà la legge algoritmica che determina in gran parte il sostegno di stato?
E la poesia? Chi la farà?
La questione sembra futile, forse non lo è tanto. Abbiamo talmente introiettato le regole del capitale, da assumere come naturale la prospettiva “economica”, la legge del “mercato”. E dunque anche la cultura, il teatro, l’arte devono dimostrare di saper essere fonte di profitto. Non si tratta solo di gestire bene la cosa pubblica e il finanziamento di Stato (cosa sacrosanta: si pensi ai casi recenti di Arena di Verona o Stabile di Catania), ma la questione è fare “numeri”.
Vale la pena ricordare, allora, che gli spettacoli che hanno cambiato la storia del Novecento erano stati visti da poche decine di spettatori. Carmelo Bene, Grotowski, Kantor, il primo Brook non avrebbero risposto adeguatamente alle richieste previste del ministero. Come loro tanti altri, in passato, e al giorno d’oggi.
E anche quel teatro di Pontedera, ritenuto fino a poco tempo fa la “corazzata” della ricerca, oggi rischia di sembrare un guscio di noce in mezzo alla tempesta dei grandi numeri: pur avendo raggiunto il traguardo del teatro Nazionale, assieme alla Pergola di Firenze, pare debba combattere una battaglia impari rispetto a strategie teatrali destinate a far di conto.
E non a salvaguardare lo “sguardo infernale e divino” della bellezza.
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