Teatro

Lear e Vortex: la vita in palcoscenico

4 Febbraio 2020

Se c’è un elemento che sempre più mi affascina, addirittura mi incanta, del teatro, sono gli Attori – per intenderci: attrici e attori, ma la nostra lingua, ancora, declina al maschile. Insomma quelli che stanno sul palco, che ci mettono la faccia, che combattono sera dopo sera per portare qualcosa al pubblico, per farsi tramite, protagonisti direi, di una storia iniziata duemilacinquecento anni fa.

A loro guardo con stupore e fascinazione, con ammirazione certo, anche – e paradossalmente soprattutto – se lo spettacolo scricchiola, se non riesce in pieno, se ha qualcosa di incastrato o presuntuoso.

E allora li vedo compiere miracoli, di sopravvivenza, di fantasia, di tecnica, di arte. Le signore attrici e i signori attori, giovani e meno giovani, hanno dalla loro la potenza terribile della bellezza, la gioia infinita e invidiabile della creazione teatrale, il piacere ludico e mistico della trasformazione.

Parlano, agiscono, sono ascoltati e sono guardati. È un rito antico, contadino e religioso, popolare e nobile: sarebbe troppo dire una “Missione”, ma certo in chi fa teatro, permane una potenza non solo missionaria, ma anche messianica. Ovvio: non sempre e non tutti, ché girano certe mezze tacche da collezione (soprattutto tra i declamati “volti noti”).

Eppure anche in chi è meno talentuoso, in chi è fanfarone o adulatore nei confronti del pubblico, vi è una “cialtroneria” geniale, a volte sorprendentemente entusiasmante. Poi ci sono i “grandi attori”, quelli veri, quelli che sanno di portare adosso saperi antichi, storie infinite che si intrecciano, approcci al personaggio, al ruolo, al testo che vantano lunghe tradizioni e interpretazioni. Al di là delle intelligenti invenzioni della Regia, oltre le bellezze scenografiche, costumistiche, illuminotecniche, lontani da mode e tendenze performative, i grandi attori sono – per dirla con Pasolini – una “forza del passato” che pure sa vivere il presente. Sa mettere il presente nella storia.

Foto Filippo Manzini

Allora, l’altra sera, al Teatro Eliseo, mi gustavo l’interpretazione di Glauco Mauri nel Re Lear diretto da Andrea Baracco. Con Mauri, oltre al solido, presente, forte Roberto Sturno – talmente consustanziale a Mauri che non si sa più dove finisce il talento dell’uno e inizia quello dell’altro – c’era un gruppo di attori che sembrava convocato e presente proprio per “giocare” (nel senso nobile del termine) con Glauco Mauri.

Un gruppo, affiatato e giovane, a partire dalle tre figlie di Lear, la sensibile Cordelia di Emilia Scarpati Fanetti, l’altera Linda Gennari (Goneril) e l’aspra Aurora Peres (Regan). Con le tre co-protagoniste, oltre al citato Sturno, che tratteggia un intenso Gloucester capace di evocare Amleto, anche Francesco Sferrazza Papa (Edgar), Aleph Viola (Edmund), il sulfureo Dario Cantanelli (il fool), Enzo Curcurù (Kent) e  Laurence Mazzoni (Oswald), Paolo Lorimer (Albany), Francesco Martucci (Cornovaglia).

Vivaci, un tantino esagitati – in tutto quel camminare energico avanti e indietro, sopra e sotto – ma la cosa bella è che mi sono sembrati tutti, compreso il regista Baracco, lì per lui, lì per Glauco Mauri. che peraltro è pronto a mangiarsi – teatralmente parlando – chiunque. Insomma, davvero un Lear vecchio Leone con eco beckettiana. Qualcosa di commovente. 

 

Mauri e Sturno, foto di Filippo Manzini

E Mauri, sapiente, sornione, allegramente e spavaldamente novantenne, rideva, commentava, si divertiva. Era bello vedere come interloquisse continuamente – con gesti, cenni del capo, sguardi, brevi commenti – alle battute altrui: un modo di dare tempo, presenza, ritmo al dialogo teatrale anche in silenzio. Bello vedere come portasse le mani, come si muovesse in scena, con quale consapevolezza antica del pubblico in sala preparasse le sue tirate. Insomma, uno spettacolo nello spettacolo, che sembra sorvolare sulle volute verbali di Shakespeare, per aprire uno squarcio (forse troppo timidamente) sui rapporti generazionali, non solo quelli dichiarati dalla drammaturgia, ma anche e soprattutto quelli vissuti, attuali, di incontro/scontro tra generazioni, padri e figli/e che si confrontano per la sussistenza in vita. L’Italia ha generazioni di giovani che vive grazie alle pensioni di genitori e nonni, ha una disoccupazione giovanile sconcertante, ha un “ascensore sociale” bloccato da tempo immemore: insomma, il tanto atteso “ricambio” è sempre procrastinato, con buona pace di Shakespeare.

Ciò detto, il Re Lear prodotto coraggiosamente dalla compagnia Mauri/Sturno con il Teatro della Toscana è un lavoro che sembra “su misura”: è una festa, un gioco del teatro e Mauri, profondamente uomo di scena, lo sa bene. E con quella sua folta barba bianca si fa una gran risata e continua a macinare spettacoli.

 

Foto di Jean-Luc Beaujault

Non vorrei sembrare irriverente, ma mi piace accostare – per paradosso, ma nemmeno troppo – alla figura di Glauco Mauri quella di Phia Ménard, che ha recentemente presentato al Teatro India due lavori: L’après-midi d’un foehn e Vortex. Seppur con impianti scenici simili – un geniale, sorprendente allestimento fatto con ventilatori – il primo lavoro è, come si dice, “tout publiq”, mentre il secondo, Vortex, è destinato a spettatori un po’ più grandini.

Ho visto quest’ultimo e mi piace dunque accostarlo, seppure lontanissimo, al Lear di Mauri proprio perché centrale, anche in questo caso, è la presenza straordinaria in scena, in un profondo, intimo, legame alla materia teatrale.

Phia Ménard fa leva su invenzioni sorprendenti: utilizzando sapientemente una trentina di semplici ventilatori disposti in cerchio attorno a una pedana circolare (e ruotante), crea dei vortici d’aria in cui fa volare elementi creati a vista, tutti rigorosamente in plastica da scarto: sacchetti e sacconi della spazzatura, per intenderci, che però assumono di volta in volta significati diversi. Ecco allora, che piccole buste di plastica accuratamente tagliate e rimontate prendono sembianze antropomorfe e svolazzano lievi al suono dolce di Debussy. A questo primo numero fanno seguito altri che, seguendo la stessa tecnica, danno vita a quadri di intensità crescente.

Vortex: Ménard, in bianco, e il suo “doppio”. foto di Jean-Luc Beaujault

Quello con cui ci confrontiamo, inizialmente, è un “omone” con cappellaccio e occhiali scuri, in completo grigio, che lentamente si spoglia, si svuota, si svela. Dapprima gioca quel gioco di buste danzanti, regalando una gioia infantile, commovente. Poi danza e lotta con il proprio doppio, con una maschera sempre di plastica (che infagottava la figura sotto il vestito grigio) e poi si gonfia sino a diventar mostruosa. E ancora, in un passaggio successivo, tira fuori da sé tutto il “nero”, il marcio, in un turbinio bellissimo di un lungo nastro di plastica nera attorcigliato. Infine, ancora, in questo progressivo denudarsi, Phia Ménard arriva a “strapparsi” una seconda pelle, per rimanere, finalmente se stessa.

Con Vortex, prodotto dalla sua compagnia “Non Nova”, Ménard fa della suggestione pirandelliana dello smascheramento un delicato, poetico, gioco teatrale. Con la semplicità di un’idea scenica, emoziona e racconta molto, senza profferir parola. Quindi, alla fine, dopo i caldi applausi del pubblico, smessi i panni di scena, Phia Ménard appare per un saluto e con candore e ironia ricorda quanto sia importante, per tutti e ciascuno, avere finalmente la libertà di essere se stessi, di superare tabù, ipocrisie e censure, di potersi trasformare per divenire quel che si è, al di là di ogni stereotipo e genere.

È buffo: sono teatri davvero diversissimi, lontani, quelli di Glauco Mauri e quello di Phia Ménard. Eppure, entrambi, là, sul palcoscenico, passano la vita, trovano la vita.

0 Commenti

Devi fare login per commentare

Login

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.