Teatro
Le vie della drammaturgia: Beckett, LaBute e Goren
Le vie della drammaturgia sono (per fortuna) infinite.
Si continua a scrivere teatro, in modi diversi, con stili, tensioni, tendenze diverse: e la parola felicemente non tramonta, magari svanisce, scolora, per poi tornare forte e chiara, netta e diretta. Parole che figliano parole, diceva Buttitta: ed è bello pensare che quando un testo risuona – nella lingua del suo tempo – lascia aperte conseguenze, eco sottili, risonanze che possono generare nuovi e diversi vocabolari.
Parlare al presente del presente è atto coraggioso: e spesso – non sempre – il teatro se ne fa carico. Per questo mi piace mettere in fila tre spettacoli lontani tra loro (per epoca, afflato e struttura), comunque saldi nel far splendere la parola in scena.
Il primo è, nientemeno, Aspettando Godot, il classico contemporaneo di Samuel Beckett. Si sa, nulla invecchia più in fretta dell’avanguardia, e anche l’opera dell’Irlandese a volte risente del passare del tempo. Però, mesi fa, ho visto nel piccolo e vivacissimo Teatro dei Conciatori di Roma, un’edizione di Aspettando Godot e ancora ci penso perché ne fa vibrare oggi più che mai essenza e profondità. Siamo abituati a versioni da museo di questo testo, edizioni “classiche”, belle ma inutili, ingrigite e spesso polverose. Ebbene, Alessandro Averone – che è un ottimo attore – firma invece una regia spedita, fresca, capace addirittura di ritrovare il coté comico del testo. Complici quattro bravi e giovani interpreti, tutti da citare (in ordine alfabetico): Marco Quaglia, Gabriele Sabatini, Mauro Santopietro e Antonio Tintis. Con loro Vladimiro, Estragone, Pozzo e Lucky escono dal museo e ricominciano a camminare (o a star fermi) per il mondo. Un allestimento serio, onesto, appassionato: questo Aspettando Godot è oggi in tournée italiana e se vi capita, andate a vederlo, e ritroverete il senso di un classico.
Il secondo lavoro di cui voglio parlare è un testo di Neil LaBute, Dall’altra parte del bosco, visto al Teatro Argot, messo in scena con mano sicura da Marcello Cotugno e affidato a due interpreti di feroce bravura: Chiara Tomarelli e Paolo Giovannucci. È un noir, uno svelamento successivo per tasselli minimi, un ritratto umano che cresce per insignificanti indizi, impastato di dinamiche sentimentali massacranti. Molto americano, come è ovvio sia, ovvero molto da “provincia americana” sospesa tra perbenismo dell’apparire e abissi del vivere, il testo narra la storia di un fratello e una sorella che si ritrovano per un inatteso trasloco e – chiusi in un claustrofobico stato d’abbandono – si fronteggiano in un duello verbale e fisico che evoca errori passati e presenti. Cova la violenza, l’insoddisfazione ad alto tasso alcolico, in questa vicenda tra Carver e Hammett, in cui si insinua il dolore per il tempo che passa, per i corpi non più giovani, per un desiderio languido di essere ancora belli e desiderabili quando invece il declino è dietro l’angolo.
Tra prese di posizione morale e amoralità dilagante, i due protagonisti svelano solitudini antiche, delusioni amare, rabbia e cattiveria esasperante. Dall’altra parte del bosco funziona: LaBute è una macchina da guerra drammaturgica, ma qua e là si avverte il rischio di un “manierismo” drammatico che è il marchio di fabbrica della scrittura Usa contemporanea, pronta a tramutarsi in un bel film o in una serie Tv.
Del terzo lavoro, invece, non dovrei scrivere proprio, essendo in palese “conflitto di interessi”: perché Il segreto del Teatro, testo di Gur Koren, diretto da Lorenzo Gioielli è nato anche all’interno della Scuola STAP, dove insegno. Ma qualche parola voglio spenderla, non tanto e non solo per la soddisfazione di vedere ex allievi su un palcoscenico importante come quello della Sala Umberto, quanto, piuttosto, perché la commedia dell’israeliano Koren, (classe 1973), inedito per l’Italia, mette in scena una questione che mi sta appassionando.
La storia, infatti, narra una curiosa e divertente vicenda. Per dirla in breve: un gruppo di fallimentari spacciatori di droga vuole approfittare di una compagnia teatrale di disabili per trasportare una partita di droga. Ma si sa come vanno le cose: anche i criminali si appassionano allo spettacolo – un’improbabile versione di Romeo e Giulietta – e finiscono per abbandonare il crimine e sostenere il curioso gruppo di attori e attrici.
L’aspetto interessante, dicevo, è che la regia di Gioielli mette assieme interpreti effettivamente disabili e non: i giovani e giovanissimi dell’Accademia Arte nel Cuore condividono il palco con attori ben strutturati, come gli ottimi Alberto Bognanni e Veruska Rossi (nel ruolo degli spacciatori). Con loro, infine, gli ex allievi Stap che voglio citare: l’intensa Alice Bertini – che fa il ruolo di una Giulietta non vedente, con stoffa e carisma da capocomica nonostante la giovane età –, poi il bravo Alberto Fumagalli e ancora Lorenzo Caldarrozzi (il divertente Romeo), Francesco Massaro, Silvia Parasiliti Collazzo.
Insomma, l’elemento significativo, sui cui riflettere, è che nel testo di Koren il gruppo di attori “speciali” è chiamato a una divertentissima (e feroce) parodia di se stesso: gli interpreti con diverse abilità fanno scientemente la parte dei “disabili” che non sanno recitare, svelando il meccanismo pietistico che spesso si instaura tra spettatori compassionevoli e spettacoli cosiddetti di interazione sociale. Come pure, in un gioco metateatrale, si acuisce la denuncia di un mondo (o di un teatro) che non esita a sfruttare il disagio altrui per puro profitto. Bravi, dunque, nel mettersi in gioco Emanuela Annini, Valeria Antonucci, Ajay Bisogni, Ludovica Boccaccini, Alessandro Tiberi.
Alcune cose, nell’allestimento, sono da sistemare: magari una sforbiciatina (ad esempio al triplo finale, peraltro previsto nel testo originale) gioverebbe: ma Il segreto del teatro dà il senso piacevole e pregevole di vedere attori e attrici di scuola differente fare una commedia al di là degli steccati di categoria: non più “teatro sociale”, né “teatro di ricerca”, e nemmeno “teatro commerciale”, ma un lavoro ben fatto, efficace e divertente, di intrattenimento alto e poetico. E chissà se Shakespeare, a vedere di lassù quell’esilarante e travolgente Romeo e Giulietta non sorrida almeno un po’.
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