Teatro
Le Troiane a Delfi: l’immane presenza del tragico
Da dove cominciare? Si potrebbe partire almeno dai dati essenziali: grazie all’impegno della Fondazione Onassis e del European Cultural Center of Delphi, il regista Theodoros Terzopoulos ha messo in scena Le Troiane di Euripide, con la sua compagna Attis Theater, nell’antico teatro del sito archeologico di Delfi. Una tre giorni di convegno hanno preceduto e accompagnato l’evento, con ospiti del calibro di Eugenio Barba, Anatoli Vassile’v, Hans-Thies Lehman e molti altri.
Ma certo questo non dice nulla della bellezza selvaggia, dell’emozione profonda, della ritualità antica, della complessità scenica dell’operazione.
Occorre dunque percorrere la via sacra, arrampicarsi sotto il sole cocente di questi giorni, per arrivare al teatro: è un bellissimo spazio, piuttosto ben conservato, con una vista eccezionale sui monti che circondano il Parnaso. Le spalle alla montagna, la vista sulle valli. L’orchestra è invasa da un’installazione pensata da Yannis Kounellis, cui lo spettacolo è dedicato. Mentre il pubblico si sistema negli scranni di pietra, un refolo di vento rende tutto più piacevole. C’è la ministra della cultura, Lydia Koniordou, c’è la direttrice della sezione Cultura dell’infaticabile fondazione Onassiss, Afroditi Panagiotakou; e soprattutto c’è tanta gente. L’evento è davvero eccezionale.
Terzopoulos è uno dei grani maestri della regia europea: acclamato in tutto il mondo – forse un po’ meno in Italia, dove è conosciuto anche e non solo grazie agli inviti fatti dal festival Vie di Modena in anni recenti – e soprattutto è ideatore di un solido metodo per attori di notevole profondità e acutezza. Un metodo che si è dimostrato particolarmente adatto a formare attori in grado di dire il tragico, di rendere appieno la presenza e la sostanza, di veicolare insomma la struttura complessa della tragedia greca. Le Troiane è nato, in un primo approccio, nel 2017 a Cipro, in occasione di Pafos Capitale Europea della cultura, e ora torna, definito e ancora più armonioso in questa operazione che lega indissolubilmente lo spettacolo al luogo, ovvero il rito al mito.
La vista, seduti là, in mezzo alla cavea, è mozzafiato. Un silenzio animale pervade lo spazio: il frinire delle cicale è continuo e assorbe il chiacchiericcio del pubblico che si sistema nell’attesa. La scenografia è formata da una spirale di scarponi militari, che si allargano a cerchio, allineati. Sul fondo una lunga panca e un piccolissimo altare. Ben prima dell’inizio ufficiale dello spettacolo, un attore entra e si piazza al centro della spirale. Il centro di tutto. Giacca e pantaloni neri, comincia a sussurrare, a emettere frammenti di discorso, suoni gutturali, parole appena percepibili. L’acustica qui, è perfetta: non ci sono gli orribili radiomicrofoni per gli attori, che sono possenti – tutti – nel portare la voce ovunque. Si scoprirà, dopo circa venti minuti di incredibile presenza, che quel primo attore, solo in scena, è il dio Poseidone, a lui il compito di introdurre Ecuba e la sua storia.
La vicenda, si sa, narra delle sorti delle donne troiane dopo la disfatta della città: vendute, prese dal nemico greco, la regina, Cassandra, Andromaca e le altre avranno una sorte terribile. È uno dei grandi ribaltamenti di prospettiva della drammaturgia ateniese, come furono i Persiani: i greci raccontavano a teatro le sorti degli sconfitti, il punto di vista dell’altro, del nemico, con empatia, compassione, comprensione. Così Ecuba fa i conti con la realtà. E subito lo spettacolo di Terzopoulos si articola, si apre a una visione ampia, attuale, cocente: i giovani attori provengono da città “divise”, come Nicosia, Mostar, Sarajevo, Gerusalemme e le lingue si mescolano, come le provenienze degli interpreti. Turco, greco, bosniaco, serbo, croato, arabo, israeliano: risuonano nelle voci e nei corpi delle donne che evocano i propri morti, i caduti di tante guerre. L’Europa è qui, in questo luogo considerato il centro del Mondo: a Delfi convenivano tutti, portando omaggi, oggi si porta la tragedia.
Una tragedia che inizia nel tremore e nel terrore delle donne, tutte vestite di lunghi abiti neri: c’è una vibrazione costante dei corpi, delle teste, dei capelli, un tremore che nasce dal profondo del corpo, inarrestabile come un delirio. Il destino si presenta in forma di lettera, consegnata dal dio a Ecuba: una lettera come tante, che però cambia la vita. Una lettera, come una persona inattesa, ti volti ed è là, ed è la morte. Quel coro ride, all’unisono, la risata cresce e si fa maschera grottesca, fino a diventare lamento, pianto, orrore. I corpi fremono, si squassano, si lasciano travolgere da una febbre che diventa presto la visione orrorifica di Cassandra: lei sa, vede, ha capito tutto. Il personaggio di Cassandra è assunto da tutte le donne del coro, consapevoli del loro destino. Ed è una processione che travolge e sconvolge l’impianto scenico, le scarpe prima composte come in un camposanto – segno indelebile che pure rimanda a certe coreografie di Pina Bausch – diventano simbolo degli uomini persi, dei morti, del lutto.
Ecco poi avanzare Andromaca il cui monologo sarà uno dei momenti più alti della tragedia. Sirene antiaereo e rumore di spari interrompono la frenesia continua che scuote tutti e ciascuno: solo lei, la moglie dell’eroe Ettore, continuerà il suo dolente compianto.
Poi sarà la volta di Elena, in un silenzio irreale, rotto solo dall’abbaiare lontano di un cane, entra la donna causa di tutto: ha pose da vamp e aria saputella, gorgheggia come una novella Callas, tanto da strappare anche un sorriso nel pubblico. Menelao, gagà in frac e braccio armato, è pallida controfigura di queste potente universo femminile: non c’è spazio per lui, se non per farsi abbindolare ancora una volta dal fascino di Elena. Ma su tutto e tutti domina l’aspra, umanissima, figura di Ecuba, segnata dal tempo e dal dolore.
Non ci sono banali attualizzazioni, semmai un ponte, un filo, una rete che lega passato e presente: lo spettacolo travalica la trama, supera anche i riferimenti possibili all’attualità e diventa un respiro comune e collettivo. Mai, prima d’ora, avevo sentito un coro respirare, sospirare, così. Il respiro lento e regolare, oppure tagliato e aspro delle donne si fa ritmo, basso continuo, incalzante evocazione al dio. E quando prorompe l’urlo collettivo, che si riverbera potente e pauroso, in forma di eco nelle montagne e nelle valli circostanti, allora la forza di questo teatro arcaico, antico, e presentissimo si dipana nelle vene degli spettatori in una comunione che è comunanza e condivisione.
Dunque questa regia che è coronamento di un progetto ampio della semplice messa in scena: per seguire la proposta scenica di Terzopoulos non possiamo non tenere conto della collocazione, del contesto storico e geografico in cui ha voluto ambientare queste Troiane che riverberano anche la maestria, la sapienza rara, fatta di rigore, di cura maniacale, ovvero di accompagnamento, della presenza attorale, e di una riflessione strutturatissima su cosa sia e come si possa fare la tragedia oggi.
In Italia questo regista potrebbe essere considerato, paradossalmente, un “giovane promettente”, dal momento che abbiamo visto solo pochissimi suoi spettacoli (tre o quattro in tutto) e davvero sorprende quanto il suo metodo, ferreo e minuzioso, sia così poco frequentato nelle nostre scuole – c’è un agile libro pubblicato da poco da CuePress che dà conto del lavoro. Tanto più ci si stupisce che non sia ancora approdato in quei templi della tragedia che vantiamo, non solo in Sicilia. Ma tant’è: vale la pena venire a Delfi per vedere, e capire, il suo lavoro e per ricordarsi che il teatro non è fatto solo da “studi”, prove aperte, spettacolini di venti minuti…
C’è da dire infine degli interpreti, che danno vita a un insieme potentissimo, carico di energia e di viva presenza, in cui spiccano la straordinaria, meravigliosa attrice greca Despina Bebedeli come Ecuba: debuttò nel 1962 con Mikis Theodorakis e oggi, a distanza di oltre cinquanta anni, mostra una forza d’acciaio e una commovente delicatezza. È travolgente la Elena di Sophia Hill, che già vedemmo in altri spettacoli di Terzopoulos e che qui conferma le sue doti di interprete. Ho amato molto l’interpretazione di Niovi Charalampous come Andromaca, sballottata all’inizio tra due tavole che la mettono in croce, dà poi alla perdita il valore altissimo del sacrificio. Ma sono ottimi tutti, contribuendo ciascuno con dignità, eleganza, forza, presenza e “distillata assenza” alla composizione: Propkopis Agathokleus, come Taltibio; Evelina Arapidi come Athena, il corifeo Erdogan Kavaz che entrano anche nel coro con Ajla Hamzic, Hadar Barabash, Sara Ipsa, Evelyn Assuouad. Andreas Fylaktou è stato sostituito, per un incidente, nel ruolo di Poseidone, da Savvas Stroumpos, attore storico dell’Attis Theater di Terzopoulos, ma il cambio non ha certo inficiato la riuscita dello spettacolo. Gli interpreti sono davvero tramite, medium, testimoni storici che incarnano e superano il tempo come è nella tragedia. Nelle incalzanti, cupe, avvolgenti musiche di Panagiotis Velianitis, Le Troiane si dipana con l’assolutezza e la precisione di una freccia scoccata da un arciere sapiente.
Si resta abbagliati, travolti, commossi, impauriti. Dioniso è qua, vicinissimo, da qualche parte, a farsi gioco di Apollo.Vita pulsante e morte incombente, Eros e Thanatos che si inseguono, si sfidano, si attraggono.
E poi c’è un sassolino, che sta lì da chissà quando: lo raccogli e capisci che quel sassetto insignificante alla fine siamo tutti noi, che non contiamo poi nulla. La nostra hybris ci fa credere al centro, del tempo, della storia, della vita. Ma come per Le Troiane la guerra della vita passa e travolge, muta il corso del destino: ti pensi qualcosa e non sei nulla. Mentre il sole tramonta, tingendo di rosa e poi di scuro il monte Parnaso, con un filo di vento si consuma la tragedia delle Troiane: quelle donne, stanno là antiche e forti come le montagne, ancora e sempre, a ricordare le tragedie di ogni tempo. Eppure, anche nel rito del lutto, c’è un segno di speranza: nel finale, gridato in tutte le lingue. Qualcosa, forse, un giorno cambierà.
(Le immagini che qui pubblico sono state scattate, furtivamente, da chi vi scrive. E sono di scarsa qualità. Poi arriveranno le foto vere, quelle ufficiali, e le pubblicherò in un altro post per dare testimonianza ulteriore di questo evento)
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