Teatro
Le Sacre senza sacrificio di Virgilio Sieni
Strana avventura quella della Sagra della Primavera, la creazione dei Ballets Russes di Diaghilev, andata in scena nel 1913 con la coreografia di Vaslav Nijinskij e le musiche di Igor Stravinskij. Fu una rivoluzione, una specie di boato che risuonò nel Theatre des Champs-Elysées di Parigi, quasi preannunciando lo squassamento della Prima Guerra Mondiale. Nijinskij, lui, quella specie di Dio confuso, quel talento immane e fragile, decretò un cambiamento radicale di codici e stili. Abdicò alla grazia noiosa del balletto classico, ma al tempo stesso si allontanò dalla leggerezza impalpabile della danza libera allora in voga. Tornò alla “Russia pagana” inventando un modo di stare in scena terrigno, materico, di grave violenza: i pugni chiusi, le ginocchia piegate, le teste abbassate…
Complice certo la composizione di Stravinskij, vero motore del tutto, che operò su un organico originale, con ritmi e timbri davvero degni di grande ricerca, ostinati e ossessivi. Ha aperto il Secolo breve, questa coreografia: fulcro di quegli anni segnati da spinte creative assolute, con cui dobbiamo ancora fare i conti. A fine Ottocento c’era stata la parodia folle di Père Ubu, un decennio prima del Sacre dalla Russia arrivavano Checov e Stanislavskij, e mentre Marinetti firmava i suoi Manifesti, presentandoli anche a Parigi, Diaghilev consumava i successi dalla sua straordinaria compagnia mettendo assieme il talento ancora giovane di Nijinskij con il già affermato Stravinskij e con la visionarietà narrativa del pittore-scenografo Roerich. E per quanto il pubblicò (non tutto) reagì malissimo, per quanto la stampa non capisse con che aveva a che fare, la Sagra è diventata un classico del Novecento, proprio come Ubu Re, o come, decenni dopo, lo sarà Aspettando Godot.
Qualcosa, insomma, che ha còlto le temperie violente e contraddittorie del secolo, e che non smette di parlarci. Per questo, reiteratamente, in molti hanno tentato un confronto con La Sagra della Primavera. Tutti o quasi i coreografi sentono prima o poi il bisogno di calarsi nei “Quadri dalla Russia pagana”, di darne la propria visione. Da Massine alla Graham, da Bejart alla Bausch, da Preljocaj a Jean-Claude Gallotta, fino al collettivo She She Pop (ne parlavo qui) passando per gli italiani Balletto Civile di Michela Lucenti, Mauro Bigonzetti, Cristina Rizzo e Romeo Castellucci.
Ora è la volta di Virgilio Sieni, tra i più attivi e riconosciuti coreografi di questa epoca.
Sieni ha avuto ed ha il merito indubbio di aver riportato la danza contemporanea al centro dell’attenzione collettiva: nelle sue molteplici avventure creative e organizzative (basti citare la Biennale Danza di cui è direttore o il lavoro fatto per Marsiglia Capitale della Cultura) Sieni ha esteso a tutta Italia una pratica di creazione e riflessione vivacissima. Facendo scorrere paralleli due filoni di ricerca (l’uno, di raffinata professionalità; l’altro aperto a non-professionisti di tutte le generazioni e provenienze), intrecciando arti visive e filosofia alla coreografia, Virgilio Sieni ha assunto – si è guadagnato – negli anni un ruolo primario di intellettuale capace di attivare riflessioni ampie, strutturate, partendo proprio dallo specifico coreutico.
Così, dopo il debutto a Bologna – nell’ambito di un ampio omaggio che la città ha voluto rendere al suo percorso di artista – l’allestimento di Le Sacre arriva al centralissimo e imponente Teatro della Pergola di Firenze, tirato a lucido da nuovo Teatro Nazionale, come appuntamento imperdibile del Festival Umano: e trova una platea affollata da un pubblico che conosce e ama il lavoro di Sieni.
Le Sacre questa volta si sdoppia. Sieni introduce un prologo, che è suggestione poetica, contenutistica, con linee di movimento che poi sfoceranno nella composizione successiva. Il Preludio avvampa attorno al violoncello incisivo di Daniele Roccato: sei danzatrici, completamente nude, sono allineate perpendicolarmente alla linea di proscenio. Hanno posture anomale e animali, movimenti allusivi e evocativi, sono assieme creatura ferina e monadi non comunicanti, sono un magma che si dipana per strappi e per sinuose evoluzioni. È una partitura bellissima, intensa, sommersa in una semioscurità che rende tutto soffuso, rarefatto, eppure di ipnotizzante forza. Sieni qui è al meglio della sua creatività: la dinamica gestuale delle danzatrici è quella cui il coreografo ci ha abituato, ma tocca una poetica ulteriore, sfiora un sublime che è ancestrale e contemporaneo. Ciascun spettatore può leggervi propri rimandi: questo gruppo di donne può essere le Troiane, può essere una comunità ferita, o pathosformeln warburghiane che attraversano i secoli per un eterno ritorno.
È una folgorazione, dunque, che dà il piano emotivo alla successiva Sagra.
Le note di Stravinskij invadono la sala (mammamia quanto fruscio, però!) e in scena, su una pavimentazione rossa, si dipana il gruppo di undici danzatori, uomini e donne appena coperti da calzamaglie leggere o in mutande. Si staglia quella che sarà l’Eletta (Ramona Caia) figura minuta e muscolosa, centrale nelle dinamiche compositive di un ensemble che è entità unica, creatura primordiale, quasi una amoeba che si allarga e si restringe, che si apre e chiude, che slancia e ingloba. Il flusso dei movimenti è adamantino – non sempre perfetto, ma non importa – e sfugge e supera la gabbia dei quadri imposti dall’originale di Nijinskij-Stravinskij. La narrazione è volutamente abbandonata: è sempre interessante verificare come si possa dare un classico negandolo dal di dentro.
Mi sembra che Sieni abbia voluto sostanzialmente fregarsene del piano narrativo, della fabula, del sacrificio. Qui infatti l’Eletta è tale solo per una distinzione cromatica (indossa una calzamaglia colorata, color prugna, che si staglia rispetto alle altre neutre) ma non c’è sacrificio. Non c’è un maschile cui immolarsi, non c’è una comunità-tribù per cui morire. Sembra quasi che non ci sia, paradossalmente e volutamente, ritualità nel Sacre laico, laicissimo, di Virgilio Sieni. Il primitivismo del rito prevale semmai nelle forme, in alcune dinamiche, in certi gesti o movimenti, ma il focus sembra essere altro, ovvero la organicità eterna del collettivo umano, umanissimo, caro al coreografo.
Resta certo lo scheletro della partitura musicale, che è tessuto sonoro di fondo, all’interno del quale Sieni compone guardando ad un altrove suo. La dialettica con Stravinskij è interessante: come un aggiramento, una demistificazione dell’immaginario (e della memoria) collettiva su quell’opera. E il sacrificio dell’Eletta si muta in slanci e sollevamenti, in verticali al contrario che ribaltano il mondo, mentre il gruppo procede – singolarmente o all’unisono – a dipanare sequenze di movimenti che pure evocano quello status, quella dimensione arcaica, tribale, cui viene però sottratta la violenza barbarica a favore di una fluida, algida, condivisa bellezza.
Riconosciamo lo stile, i movimenti, li ritroviamo di creazione in creazione: è il vocabolario di Sieni, che dipinge il mondo, alla ricerca instancabile di una poesia eterna ed eterea, primigenia.
Così, nello slancio del Festival Umano, creato nell’ambito delle attività di Cango, il centro di Produzioni sui linguaggi del corpo e della danza, che Sieni dirige nel teatro Goldonetta di Firenze, c’è spazio anche per una sorprendente istallazione: la “strada d’oro”.
Via di Santa Maria, in oltrarno, proprio la strada dove ha sede Cango, è stata completamente ricoperta di foglie d’oro.
Per tre settimane due doratori del quartiere hanno seguito nell’Accademia di Belle Arti di Firenze un gruppo di studenti del Corso di Scenografia tenuto da Simonetta Baldini, guidandoli ad applicare la foglia d’oro sul supporto da stendere sul selciato. La strada risplende magicamente di una bellezza rinascimentale, quasi divina: diventa “patrimonio”, ovvero bene comune, da condividere, da ammirare, da proteggere. L’effetto è folgorante: qualcosa su cui e con cui, ovviamente (e con un gioco di parole) possiamo riflettere a lungo.
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