Teatro

Le ferite inguaribili della guerra

26 Novembre 2023

Per la mia generazione e per la seguente – anni 40 e 50 del secolo scorso – la guerra non è un ricordo o un racconto, ma un’esperienza. Mio nonno morì sul Carso a 28 anni. Mia nonna ricevette un telegramma che le annunciava che presto il marito sarebbe venuto a riabbracciarla, perché gli era stata concessa la licenza di una settimana. Due ore dopo un altro telegramma le comunicava che suo marito era morto. Quando me lo diceva – non raccontava la guerra, diceva la propria esperienza della guerra .- la voce a un certo punto le mancava, non riusciva a proseguire. L’abbracciavo e mi piangeva sulla spalla. Nonna Savina la ricordo così, che piange sulla mia spalla per il dolore del marito che la guerra le ha ammazzato, e piange come se fosse morto il giorno prima. Mio nonno si chiamava Alfredo, come me. Dino è il diminutivo. Correva l’anno 1916. E nonna Savina restò sola con tre figli. Mio nonno Alfredo ora è sepolto tra gli anonimi nel Sacrario di Redipuglia. Quando io nacqui, mio padre Severino – ma in casa tutti lo chiamavano Rino – combatteva in Russia, mio zio Gaetano in Iugoslavia. Mia zia Gemma perse il marito. Mio padre tornò che non aveva più denti. Mi conduceva sulla bicicletta fino a Centocelle, che allora era aperta campagna. C’erano alcuni contadini che a borsa nera ci vendevano farina, uova, galline, castagne, farina di castagne. Una mattina gli aerei americani bombardarono la zona. Erano i primi di giugno del 1944. Il 4 giugno gli “alleati” sarebbero entrati a Roma. Ricordo la mano di una contadina che mi afferrava un braccio e mi trascinava dentro casa. Io guardavo stregato quei fuochi, che mi parevano di artificio. Per molte notti li avrei ricordati, svegliandomi impaurito la notte: “Oggi buttato bombe a Centocelle, quanto fumo!” farfugliavo nel dormiveglia. E c’era l’esperienza di mio padre, che non la raccontava, la riviveva. La paura, ma anche l’ospitalità, l’amore dei contadini russi, che nascondevano i soldati. Perché, se no, i partigiani li avrebbero ammazzati.

Ma queste esperienze le hanno vissute tutti quelli della mia generazione e della generazione seguente. Dunque anche nella famiglia di Silvia Luzzi, attrice maremmana, di Grosseto, ma di famiglia poliziana, e che ha recitato negli spettacoli di Ronconi, Missiroli, Cobelli. Scopre tra i cassetti di famiglia il diario di guerra del padre. Bambina non capisce il rumore di un ticchettio che arriva dalla cucina, dove si sono rinchiusi suo padre e sua madre. Scoprirà poi dal diario di guerra del padre che sono le ferite inferte a una gamba dalle schegge di una bomba, la madre via via che vanno in suppurazione le estrae con una pinza e le butta in un bicchiere. La guerra resta, sono le ferite che vanno in suppurazione e quando guariscono restano aperte nel cervello. Silvia Luzzi decide di costruire intorno a questo diario uno spettacolo, lo spettacolo non già della guerra, bensì di chi ne resta ferito, ferito per sempre. E lo spettacolo s’intitola appunto Feriti per sempre. Un monologo struggente non perché l’attrice batta sul ferro incandescente dell’emozione, ma perché il racconto procede calmo, colloquiale, come se il personaggio, che poi è lei stessa, parlasse con gli amici, si confidasse con qualcuno che ancora non sa la storia. Monta su una scala, prende una scatola di latta dipinta. Tira fuori, una per una, le fotografie di famiglia. Ci sono anche le lettere, e per ultimo il diario del padre. Legge qua e là. Sempre con la stesa voce quasi sussurrata, calma, senza dolore, sembra, perché al dolore bastano le parole che lo dicono.

C’è poi la storia di una vicina, una contadina che si chiama Elena, l’unica superstite di un’intera famiglia sterminata, quando andavano a zappare nei campi, dalla bomba di un aereo americano. E l’attrice Silvia Luzzi indossa uno scialle colorato, diventa la contadina che si chiama Elena. Parla il dialetto della Toscana meridionale, tra la Val di Chiana e la Val d’Orcia, nel senese. Una lingua che sembra venire da secoli lontani, quasi fosse il senese di Cecco Angiolieri. La mi casa, il mi babbo, la mi mamma, la mi sorella, noi si viveva tutti assieme, e non me n’è rimasto più nessuno. Non ho più nemmeno le lacrime per piangerli, bevute dal dolore. Questo, più o meno, ciò che ricorda, ciò che dice: senza acrimonia, senza rancori, ma solo stupefatta che sia potuto accadere.

E invece accade, sembra dirci l’attrice. Accade anche oggi, non qui, non in Italia e tanto meno nelle terre del senese, ma poco più a nord, in Ucraina, o poco più a sud est, nel Medio Oriente, in Palestina. E accade in tutte le altre parti del mondo che non sappiamo, che non ci dicono, ma accade. In qualche punto della Terra c’è sempre, c’è dovunque, qualcuno che resta solo o che scompare, che resta, appunto, “ferito per sempre”. Questo, l’attrice non lo dice esplicitamente, non parla mai di ciò che accade oggi. Ma lo spettatore, mentre sente dire i fatti della seconda guerra, pensa subito alle guerre che anche oggi si combattono in molte parti del mondo. Al Teatro Le Maschere, in Trastevere, dal 24 al 26 novembre, Silvia Luzzi ci ricorda queste ferite, che la mia generazione, e la seguente, che la sua generazione non vuole dimenticare, e perciò le dice a chi non ne ha fatto esperienza, perché almeno sia una esperienza l’ascolto delle parole che le fanno rivivere, queste ferite che stanno lì, sulla gamba, nel cervello di qualcuno, e non si richiudono, restano aperte per sempre.

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