Teatro
L’aspra voce delle “Ancelle”
Storie di donne, voci di donne. Esiste una scrittura femminile? Oppure lo sguardo è sempre e comunque virato o mediato dal maschile?
Me lo chiedevo, facendo il computo delle drammaturghe presenti e passate. Le grandi eroine della drammaturgia sono, di fatto, narrate dagli uomini: dai Greci a Ibsen, da Shakespeare a Pirandello, il teatro è appannaggio del Maschile, e la prospettiva è, ancora, troppo spesso patriarcale. Per quanto geniali fossero, i nostri autori, per quanto sensibili, per quanto vicini a una femminilità non manierata, di fatto portavano, imprescindibilmente, la propria voce sulla voce dell’Altra.
Ci ragionavo, giorni fa, vedendo in rapida sequenza due monologhi “al femminile” presentati in chiusura del Festival “I solisti del teatro”, ai Giardini della Filarmonica di Roma. La questione, chiaramente, non è indifferente. E non è solo estetica, o poetica. Ma politica e culturale. Ci sono state molte scrittrici, autrici anche militanti, nella storia del teatro e ce ne sono oggi: ma è come se, sempre di nuovo, dovessero combattere per farsi sentire, tanto più se vogliono raccontare del mondo al femminile: inascoltate, snobbate, relegate ai margini dal sistema teatrale tanto, troppo, maschilista.
È stato interessante, dunque, cogliere in abbinamento, o sensibilmente in contrapposizione, due solide prove di teatro che indagano e svelano alcuni nodi non proprio sciolti della condizione della donna, anche all’interno del teatro.
Il primo monologo, intenso, vibrante, è I racconti dell’ancella, tratto dal best seller di Margaret Atwood, diventato universalmente famoso grazie alla versione tv che ne è stata tratta. Opera di fantascienza (ma poi non troppo), il racconto della Atwood è stato pubblicato a metà degli anni Ottanta, eppure ancora oggi si carica di forza non solo visionaria ma attuale, sfrontata, inquietante. The handmaid’s tale pare oltrettutto sia diventato anche una sorta di “libretto rosso” delle donne americane che sfilavano contro il maschilismo ottuso di Donald “Duck” Trump.
Oggi il plot di questo romanzo “distopico” è noto: nella fantomatica Repubblica di Galaad, in un futuro postbellico, le donne sono sempre più controllate. Chiudono i conti in banca che passano all’uomo, ad esempio. Poi sono aspramente sorvegliate dal potere, inquadrate in categorie distinguibili solo per il colore dei vestiti: le ancelle si vestiranno di rosso e sono le sole in grado di procreare, sottomesse ai Comandanti, le cui mogli sterili cresceranno i loro figli. E dunque maternità, libertà, sesso, amicizia, solidarietà, sottomissione e ribellione, indipendenza e diritti: tutto si mescola con forza in questo lavoro. Con esiti durissimi.
A dar voce al racconto, ferma al leggio – in una raffinata forma di “lettura” (la calzante riduzione drammaturgica ha la consulenza di Loredana Lipperini) che è molto più di una lettura ma un viaggio vero e proprio dentro il romanzo – è la brava e infaticabile Viola Graziosi.
L’attrice, nella fattiva collaborazione con l’attore e regista Graziano Piazza, ci sta abituando a “assoli” di notevole caratura: basti pensare a un Aiace di Ritsos presentato poco tempo fa, in cui l’interprete si fa protagonista, coro, visione e narrazione, moltiplicando prospettive e possibilità del racconto. Anche qui, in un crescendo di intenzioni e sensazioni, la storia delle Ancelle si riverbera in una agghiacciante e disincantata testimonianza. Lo spettacolo era nato l’8 marzo scorso, in occasione della Giornata della donna per il “Teatro di Radio3”, con una diretta dalla sala A di via Asiago a Roma, a cura di Laura Palmieri: portato in scena mantiene urgenza e impegno. Dovrebbe girare ovunque, a partire dalle scuole superiori (o dal parlamento italiano…) proprio per quella angosciante e nitida visione del mondo, cui Viola Graziosi dà corpo e voce con nitida ma appassionata adesione.
A contrappuntare la scrittura futura e futuristica della Arwood è il genio sornione di Alberto Savinio, con Emma B. Vedova Giocasta. Il testo, si sa, è quasi un melò, un flusso di coscienza con quei tratti tragici che rimandano, ovviamente, alla figura femminile di Sofocle. La Giocasta saviniana, sapientemente reinventata, è una scampata alla guerra mondiale, innamorata persa di un figlio che si è dato alla macchia, e si tortura nel ricordo e nel sogno, evoca, spiega, narra, rivive l’addio e spera nel ritorno, dopo quindici anni, del figlio Millo.
Feticista, morbosa, consuma nel contatto con gli abiti del figlio uno struggimento inguaribile, ossessivo, incestuoso. Emma B. vive nel riflesso di Millo: ancella ella stessa, per lui e con lui. Dimenticata in fretta la figura del marito, la ritrova però in quella del figlio: la sua esistenza non ha alternative, non ha vie di fuga, claustrofobicamente legata a quell’armadio (unico elemento scenico) che è custodia delle sue memorie e dei suoi sentimenti. Tornerà Millo? O è un’ennesima messa in scena, un sogno, un abbandonarsi a languori e struggimenti che colorano, un minimo, una vita priva di personalità, di libertà, di possibilità?
Ci muoviamo in un filone mainstream di teatro, e la regia curata e rispettosa del testo, firmata da Alessio Pizzech, gioca tutto sulla convincente prova d’attrice della brava e generosa Elena Croce, interprete di razza cui fa da fugace contraltare Elisabetta Furini, testimone silenziosa dei deliri della donna. Ma quando Emma B. si “prepara” all’incontro, truccandosi, imbellettandosi, ringiovanendosi sino al limite del grottesco, in una sequenza straziante, ci troviamo a pensare – come non si potrebbe – a quella deriva devastante che costringe le donne a sottostare alla prospettiva dell’uomo, all’idea di bellezza imposta dall’uomo troppo spesso con violenza. È qua la struggente (auto)denuncia di Savinio, che si smaschera mettendo in bella mostra la donna che si immagina “per lui”, Come le vediamo, queste donne?
Voce, libertà, dignità, diritti… Quanto ancora c’è da fare. A teatro come nella vita.
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