Teatro

L’amore al confine tra le due Coree

30 Marzo 2017

Riconcilia un po’ con il teatro di questi tempi infausti, lo spettacolo che arriva al Teatro Vascello di Roma dopo un paio di uscite azzeccatissime.

Sto parlando di La riunificazione delle due Coree, testo del francese prodige Joel Pommerat e messa in scena, accurata ed empatica, di Alfonso Postiglione. Conoscevamo Postiglione come attore, ma lo scopriamo ora regista attento ed essenziale.

La commedia è un raffinato e tenero gioco sull’amore. Una riflessione dal gusto dolce e amaro – come si conviene – sulle dinamiche di coppia, o meglio sulla impossibilità delle dinamiche di coppia. Il titolo, certo evocativo, è metafora di un sogno, o di un ricordo: quando ci incontrammo era talmente bello, dice più o meno uno dei personaggi, che era la rinnovata unione di due metà separate da troppo tempo. Era, insomma, come l’abbraccio una volta rotte le frontiere del famigerato 38° parallelo che divide le due Coree. Due popoli separati tornano a riconoscersi, a ritrovarsi, ad abbracciarsi dunque. È un sogno, appunto, un’eventualità ben lontana da realizzarsi.

La scena in questione è forse il momento più alto e lirico di questo spettacolo: un uomo non più giovane va ogni giorno in ospedale a trovare la moglie, che ha perso completamente la memoria, parlano, ricordano, passeggiano, fanno l’amore. Due estranei legati da un amore antico, passato, che si ricrea ogni giorno.

Ma il lavoro è quasi un girotondo schnitzleriano in cui il bellissimo gruppo di attori e attrici si alterna e si divide in personaggi diversi, per dare vita a brevi, folgoranti sequenze di incontri, addii, ritorni dal passato, amanti molesti, sogni di fuga, litigi, separazioni, follie. Sono flash, frammenti di un discorso amoroso continuamente interrotto, forse impossibile nel suo dipanarsi, che ha il ritmo lieve di una commedia di Woody Allen e il contraltare ombroso e disperato che potrebbe essere di Lars von Trier.

Foto di Anna Abet

Perché sotto il sorriso, la battuta, la trovata c’è un carnage micidiale, l’autopsia sistematica che tutti – nessuno escluso – abbiamo prima o poi vissuto nelle nostre relazioni. Etero o omo, grandi o giovani, innocenti o corrotti, l’umanità di Pommerat è fatta da esserini qualsiasi, tutt’altro che eroi: magari meschini, egoisti, semplici eppure caparbiamente all’inseguimento dell’amore, della passione, dell’euforia o del sorriso che può dare un corteggiamento inatteso.

La sorpresa dell’amore, diceva Marivaux, che certo deve essere nell’orizzonte di riferimento di Pommerat: come pure potrebbe esserlo Ionesco o addirittura Beckett. Perché poi è facile, parlando d’amore, scivolare nell’assurdo, nell’incomunicabilità, nell’incomprensione reciproca fino alla violenza.

Il carosello di questi personaggi vola lieve, intervallato da musiche d’antan, e ambientazioni con ombrelli che appaiono, scompaiono e tanto ricordano le immagini languide di Jack Vettriano. La bella e concettuale scena di Roberto Crea si concretizza in una sorta di cubo a specchio, in alto sul fondo, che ruota e diventa caleidoscopio o clessidra per spiare e scandire l’inesorabile passaggio del tempo: muta di posizione, di riferimento, come del resto i mutevoli e sfuggevoli abitanti del mondo borghese di Pommerat.

Foto di Fiorella Passante

A impersonarli, allora, sono un gruppo di attori ottimamente orchestrato, artefici di una interpretazione fluida, serena, intelligentemente sospesa tra adesione e sottile ironia. Sarebbe un torto citare questo o quella, dal momento che il lavoro è davvero corale: sono bravi e brave, aderenti, attenti, presenti e vivi in scena. E se pure il nostro vezzo critico preferirebbe mettere in risalto qualcuno, meglio e più corretto è citarli tutti assieme, e in perfetto ordine alfabetico. Eccoli qua: Sara Alzetta, Giandomenico Cupaiuolo, Paolo De Vita, Biagio Forestieri, Laura Graziosi, Giulia Innocenti, Gaia Insenga, Armando Iovino, Giulia Weber.

La regia sa cogliere il meglio da tutti: Postiglione armonizza i suoi in un tono mai pedante o evanescente, trattiene quel limite – tra sberleffo e tragedia – di acuta sapienza e indubbia difficoltà.

foto di Anna Abet

Così, se pure la riunificazione delle due coree non è propriamente imminente nell’agenda politica mondiale, questo spettacolo lascia con una sorprendente, inattesa, leggerezza, addirittura speranza. Perché in fondo è bello crederlo, che prima o poi coreani del sud e del nord torneranno ad abbracciarsi. L’amore è lì, nella linea di confine, è il confine, fragile e sorvegliato, tiene distanti e avvicina: ti fa guardare da oltre il filo spinato, ti fa venire voglia di scavalcarlo, di correre di là. Superare la terra di nessuno della propria identità confusa e provare, e lo sappiamo, ad amare.

Prodotto da EnteTeatroCronaca Vesuvioteatro, lo spettacolo è a Roma, a Vascello, ancora qualche giorno.

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