Teatro

L’amara sorte di Anna Bolena commuove l’Opera di Roma

4 Marzo 2019

Da tempo seguo, per quel che posso, il percorso registico di Andrea De Rosa. Un viaggio nella regia, il suo, ampio e articolato, fatto di esiti folgoranti – come non citare quel memorabile, Elettra, con la straordinaria Frédérique Loliée – e di coraggiosi assalti ai classici (un Macbeth morboso, cupo, ma meno riuscito), di confronto con i testi contemporanei, come il recente, potentissimo Autobiografia Erotica, tratto dal romanzo di Domenico Starnone (non adeguatamente apprezzato), e di altri intensi affondi nella tradizione culturale della sua città, Napoli (come da ultimo, non ho visto l’ultimo, mi dicono bellissimo, E pecché? E pecché? E pecché al Mercadante).

Accanto al lavoro in “prosa”, il regista ha maturato un gusto e una sapienza notevole anche nella lirica a livello europeo e internazionale.

La passata stagione, vidi a Roma, al Costanzi, il suo nitido e dolente Maria Stuarda (ne parlavo qui). Quest’anno, quasi a completare un omaggio a Gaetano Donizetti, ecco Anna Bolena, sempre all’Opera di Roma.

Una nota a parte: che la stagione dell’ente lirico capitolino sia notevole, è sotto gli occhi di tutti: non ci stanchiamo di ripetere che la “cura” del sovrintendente Carlo Fuortes ha fatto bene alla istituzione capitolina, restituendo smalto, coraggio, inventiva (e soprattutto pubblico) all’Opera.

Con Andrea De Rosa, la partitura donizettiana acquista rinnovato senso, profondità. La regia è estremamente rispettosa e funzionale, complice la bella scena di Luigi Ferrigno, da una idea di Sergio Tramonti, e rende al dramma una chiave di claustrofobica, ossessiva, umanità. Sono gabbie, più o meno strette, quelle che abbracciano tutto e tutti: celle da cui non v’è uscita, nemmeno per chi comanda.

La vicenda è nota: alla corte di Inghilterra, Enrico VIII vuole “disfarsi” della moglie Anna Bolena, per impalmare – diciamo così – l’affascinante Giovanna Seymour. Ed è disposto a tutto, anche a condannare a morte la sventurata. La tragedia, dunque, è tutta in un precipitar d’eventi, in una ineluttabile corsa verso il cruento epilogo, nonostante i tentativi di riscattare le sorti di Anna per approdare a soluzioni meno cruente.

 

Carmela Remigio e Alex Esposito, foto di Yasuko Kageyama

 

Ma in questo allestimento attento e aguzzo, il libretto di Felice Romani diventa spunto per uno scavo inquieto negli animi e nelle personalità dei protagonisti. Non solo Enrico, violento e dissoluto; e Anna appassionata e sincera, ma con loro anche la Seymour, sedotta eppure consapevole della sua brama di potere e visibilità, e Riccardo Percy, lo storico innamorato di Anna, esiliato e poi richiamato per assecondare, inconsapevole, l’astuta trappola tesa dal re. Questa partita a scacchi dei sentimenti assume il carattere di un feroce regolamento di conti, in cui la corona è chiave per la soddisfazione di brame personali, a fronte di slanci e cedimenti, egoismi e passioni.

Quel che appare notevole, dunque, è proprio il raffinato lavoro d’attore, la cura per il personaggio che, anche indipendentemente dal piano emotivo dato dalla musica (certe cabalette molto rossiniane, con l’a capo ripetuto all’infinito, smorzerebbero qualsiasi pathos tragico) illuminano la tensione dell’opera.

Intensa, allora, per fare un paio di esempi appaiono la sequenza finale del primo atto, con l’incontro notturno tra Anna Bolena e Riccardo, in un incombente senso di pericolo, giocato a ridosso dell’intimità inaccessibile dell’alcova velata fino al violento svelamento in forma di gabbia; oppure ancora emblematica, per profondità di lettura, è l’apertura del secondo atto, con le due donne a confronto. Anna Bolena già carcerata e Seymour che cerca di darle consigli per salvarsi: tra le due rivali in amore si instaura una forte, inattesa, solidarietà. Il senso di colpa della “usurpatrice” si muta in una consapevolezza amara della seduzione subita, mentre la rabbia della “spodestata” si muta in comprensione e perdono. E le due donne, per un istante unite, si rendono conto di quanto sia in definitiva il potere dell’uomo, di Enrico, ad aver rovinato le loro esistenze.

Nel commovente finale, poi, la condanna verrà “eseguita” da un simbolico ed esplosivo controluce: l’elegante Anna, inginocchiata, porge il collo al boia ed  Enrico soddisfatto potrà sposare Giovanna Seymour.

 

Maria Agresta e Carmela Remigio, foto Yasuko Kageyama

 

Non ho competenze adeguate per entrare nel merito della direzione musicale, ma il lavoro fatto da Riccardo Frizza con l’orchestra del Teatro di Roma mi è sembrato calibratissimo, attento, vibrante: direi anche sodale, partecipato, ossia vicino al tumulto dei personaggi. E ho trovato davvero belle le voci di Maria Agresta, nel ruolo del titolo, e di Carmela Remigio come Seymour: potenti, adamantine, ricche di sfumature. Bravissime attrici, si diceva, oltre che cantanti: carismatiche e appassionate.

Benissimo Alex Esposito che rende il suo Enrico VIII con forza e determinazione: un re Enrico aspro, implacabile, strafottente come certi politici di oggi. E bene anche il Percy di René Barbera: tenore potente e nitido. Mi ha divertito lo Smeton, il giovane innamorato tutto slanci e ingenuo candore, interpretato con partecipazione, ironia e bella voce da Martina Belli en travesti. Da segnalare, infine, la buona prova come Lord Rochefort, di Andrii Ganchuk proveniente dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del teatro dell’Opera di Roma.

 

Maria Agresta e Alex Esposito, foto di Yasuko Kageyama

 

Dell’orchestra ho fatto cenno: è un piacere ascoltarla. Un po’ compassato mi è sembrato il coro maschile, indolente e ciondolante di qua e di là nelle entrate in scena; mentre più compatto quello femminile, specie in apertura del secondo atto.

Alla replica cui ho assistito non sono mancati applausi a scena aperta per le due protagoniste, ma un convinto battimani ha portato al trionfo, alla chiusura di sipario, tutti gli interpreti.

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