Teatro
La visione del teatro è più filosofica del reale
Teatro di visioni che scava il territorio dell’esperienza del vero.
10 Marzo 2025
Sia favola sia fiaba derivano dal latino fabula. Me nella tradizione italiana la favola definisce per lo più il racconto esemplare i cui personaggi sono animali e la fiaba il racconto fantastico, vi siano o non vi siano le fate. E in quest’ultimo senso le interpretò, raccolse, riscrisse la tradizione europea da Perrault a Basile, dai fratelli Grimm ad Andersen. Sulla fiaba scrisse un illuminante saggio Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, individuando una struttura ricorrente in ogni racconto fiabesco. Ma nell’uso colloquiale, e popolare, i due termini, soprattutto nel novecento, sono interscambiabili. E forse non a torto. In latino fabula è anche l’intreccio, il racconto. Ed è il termine con cui in latino fu tradotto il termine greco τραγῳδία, in latino tragoedia, da cui l’italiano tragedia.
Ma la tragedia continuò a essere chiamata dai Romani fabula. E fabulae sono le straordinarie tragedie di Seneca, dalle quali non c’è drammaturgo moderno che non abbia attinto. Oscar Wilde non scrisse né fiabe né favole, ma racconti, tales, e li raccolse in un volume, The Happy Prince and Others Tales, che contiene quelle che per noi italiani sono cinque “fiabe”, ma per gli inglesi restano “tales”, racconti: oltre alla prima del titolo, sono The Nightingale and the Rose, l’usignolo e la rosa, The Selfish Giant, il gigante egoista, The Devoted Friend, l’amico devoto, The Remarkable Rocket, il razzo eccezionale, nelle edizioni moderne si aggiunge una sesta fiaba, The Canterville Ghost, il fantasma di Canterville. Da questo testo parte Giancarlo Sepe per costruire il suo sogno teatrale. Lo spettacolo ha quasi un quarto di secolo alle spalle, ma è oggi riproposto, credo, non a caso. I titoli delle fiabe sono esposti in una sorta di locandina tra gonfaloni tricolori e diversi ritratti dello scrittore irlandese, ma i due attori ritti ai fianchi della locandina subito la tolgono dal muro e le immagini scompaiono. Il pubblico, ridotto a sole 34 persone, siede in circolo, e immagini e avvenimenti scorrono intorno a lui. Scorre anche il palco che lo sostiene, ruota, e le immagini, o piuttosto le visioni, ruotano intorno al pubblico. Poche frasi introducono l’azione, quella che i latini chiamerebbero la fabula: che non è di parole, ma appunto di visioni. Sia la parola latina fabula, che quella inglese tale, sono più vaghe, più inclusive della parola italiana fiaba, e Sepe sceglie per questo, in tutta la sua attuale ambiguità, la parola “favola”: “Più che narrare, si sondano i territori della favola“, scrive. L’ambiguità, l’onnicomprensività attuale della parola favola si fa visione, immagine che si muove, figura che accade. Wilde sostenne per una vita che la verità della poesia è più vera della verità del mondo reale. Un paradosso che esaspera l’affermazione aristotelica che la tragedia, i latini direbbero la fabula, è più filosofica della storia.
La realtà, che Machiavelli chiamerebbe “effettuale”, promosse un processo che accusò Wilde di immoralità – anche la parola, il nome omosessualità, “l’amore che nasconde il suo nome”, sono impronunciabili, in quella realtà, e dunque inattuabili, gli “omosessuali” vanno reclusi, separati dal mondo. Sta accadendo di nuovo. Non solo nella Russia autoritaria di oggi. Ma anche nei “democratici” USA, ed è già legge in qualche Stato europeo, che si dichiara liberato da questa oscenità: esistono, per costoro, solo due generi, maschio e femmina, gli altri sono immaginari, proibiti. Peccato che esistano lingue che di generi ne hanno tre, maschile, femminile e neutro, e mica solo le lingue classiche, il latino e il greco antico, ma anche il neogreco, il tedesco, il russo, per esempio. In tedesco bambino è neutro, Kind, e anche ragazza, Mädchen. La realtà, quella che crediamo realtà, può essere più inquietante, più tragica, del sogno, della fiaba, della fabula. Per esempio le guerre, che di nuovo, ancora affliggono l’Europa e il mondo. O per esempio il carcere comminato per reati di opinione. Anzi lo stesso reato di opinione, se ci si pensa, ritenerlo un reato è un incubo, nei paesi dove vige. Ed è su questo territorio imprecisato, sul crinale tra esperienza e sogno che nascono gli orrori, ma anche le felicità della storia. Per questo la fabula è più filosofica della storia, il teatro più vero della realtà, perché mostra il territorio in cui la realtà si forma, nasce, da cui si sviluppa. Possono essere le ossessioni di un seminarista, i conflitti di una coppia, il tormento di uno scrittore davanti alla pagina bianca, l’inspiegabilità di un urlo, l’imprevedibilità di un bacio. Le figure si muovono, si agitano intorno al pubblico, la luce è cancellata dal buio, ma dal buio riemerge poi con nuove visioni. Tutto scorre, direbbe Eraclito. Niente è afferrabile, tranne la nostra angoscia.
Lo spettacolo dura un’ora. E per un’ora il pubblico perde la percezione di un fuori e di un dentro. E poi ci sono le musiche, Vivaldi, Fauré, Bizet (I pescatori di perle). Ciò che si ascolta e che ruota intorno è dentro di noi, è la visione interiore che si materializza fuori di noi. Uscendo da teatro proprio la realtà esteriore, le strade, le macchine, gli autobus, le case, ci appare irreale, mentre ciò che avevamo visto nel buio del teatro era la realtà. Un’ultima notazione: θέατρον, théatron, viene da θεάομαι, theáomai, io guardo. Ed è un verbo che ha solo la forma medio passiva, guardo per me stesso. Ci riflettano quanti ancora stanno discutendo se teatro sia la parola, l’azione o la visione. Ma perché no tutte queste cose insieme? Anni fa un critico italiano assai seguito dai lettori, ma anche dagli spettatori della televisione, dopo avere visto alla Biennale di Venezia quel capolavoro assoluto che è Gertrud di Dreyer, lo stroncò affermando che non era cinema perché gli attori parlano troppo. Gli attori, nel cinema, parlavano anche quando era muto. Ma chi decide quante parole deve dire un attore per restare dentro il cinema e quante per uscirne? Ma, chi sa, forse del cinema quel critico aveva la stessa idea che si ha del mimo. Ma anche in questo caso si sarebbe sbagliato, perché nel mimo la parola che non si sente la dice il corpo. E che sia così lo dimostra il fatto che alla fine dello spettacolo i 34 spettatori applaudono con entusiasmo i bravissimi attori che ora vengono a salutarli in carne e ossa, reali, nel buco di un passaggio, che quasi li si tocca. E per ringraziarli di quell’ora li si vorrebbe tutti abbracciare.
FAVOLE
di Oscar Wilde
PER COMINCIARE A LEGGERLE
uno spettacolo di
GIANCARLO SEPE
con
Alberto Brichetto, Davide Giabbani, Ariela La Stella, Aurelio Madraffino, Riccardo Pieretti, Federica Stefanelli, Michele Dirodi
scene Carlo De Martino
musiche Davide Mastrogiovanni
costumi Lucia Mariani
produzione Teatro della Toscana
Roma, Teatro La Comunità, fino al 17 aprile
Favole di Oscar Wilde (per cominciare a leggerle)
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