Teatro
La Vanità in Commedia per raccontare il presente
Si tratta di entrarci, in quel circo, di prendere di petto la distopia “come era”. Affrontare la Commedia della Vanità, testo di Elias Canetti messo in scena da Claudio Longhi, con Ert di Modena, vuol dire sbatter la faccia in verità aspre, in pensieri aguzzi, in provocazioni taglienti.
È una opera-mondo, un rutilante susseguirsi di numeri che sono spaccati esistenziali, quadretti familiari che tratteggiano un’epopea umana, e svelano la corsa cieca verso la catastrofe della dittatura. Scritto nei primi anni Trenta del secolo scorso, la Commedia è un testo di “fantascienza” teatrale, eppure mai come oggi assimilabile alla realtà. Canetti, l’indimenticato autore de La lingua salvata, Auto da fé o di Massa e potere, sembra elaborare in questo complesso testo dialogico tutti i temi che avrebbe poi analizzato scientificamente.
L’intuizione di allora è davvero ancora folgorante: in una comunità l’Autorità decide di muovere guerra alla “vanità”, e dunque a tutte le sue esternazioni e concretizzazioni. Vietati film, al macero gli specchi, al rogo le fotografie, proibito il vetro e tutto ciò che può restituire l’immagine della persona, punita l’adulazione, condannata ogni “riflessione”.
Il lettore capirà quanto, nell’era del selfie, tale situazione colpisca nel segno. A quasi cento anni dalla scrittura della Commedia, Elias Canetti apre le porte al baratro: il culto dell’immagine che oggi ci sovrasta è un leviatano inquietante, ma nel proibizionismo iconoclasta da lui prefigurato si celano, per ribaltamento, i germi dell’assolutezza, del regime, della dittatura.
Ogni potere ha storicamente messo in scena se stesso. Nelle folle oceaniche o nelle parate, nelle statue celebrative o nelle cerimonie, nei riti o nelle sacre rappresentazioni, l’immagine che il potere dà di sé è strumento capace di imporre e imporsi, di convincere (sia in modo suadente che in modo violento) o quanto meno sedurre. Allora diventa chiaro il paradosso applicato da Canetti: il potere che vieta le auto-rappresentazioni del sé ai propri sudditi, in nome di una maschia, virile, lotta alla degenerazione della vanità, priva tutti e ciascuno di identità. E allora non c’è rappresentanza diretta che tenga, non ci sono spazi per movimenti di resistenza (o per “sardine”), non ci sono più spiragli, appunto, per la “riflessione”.
Non che l’ossessione narcisistica oggi dominante sia meglio, anzi: il culto della persona e della personalità è la deflagrante piaga della politica e della società di oggi. Con conseguenze facilmente riscontrabili.
Il 75% degli italiani, dice l’ultimo rapporto Censis, non si fida più degli altri. E una buona percentuale, il 48% è pronta per l’Uomo Forte solo al comando. In questo Paese sfiduciato, l’unica certezza, secondo il Censis, sembra essere lo smartphone: lo guardiamo e ci guardiamo dalla mattina alla sera.
E Canetti ha il sornione gusto di svelare come siamo arrivati, decenni dopo, a tutto ciò. Sa raccontare, in filigrana, i meccanismi e le pulsioni, le forzature e le violenze, le derive e le disfatte del Sé. Il testo, allora, è un affastellarsi di situazioni, di scene, che vanno avanti nel tempo e si dislocano continuamente, slittando da un ambiente all’altro. Vi è una pletora di personaggi, una massa umana in cui spiccano per pochi istanti, ora l’uno ora l’altro. Sembra di assistere a un turbine, o a una spirale, che tutti avvolge, una corsa dapprima entusiastica, poi sempre più complessa e faticosa, verso lo strapotere dell’Uno nell’annientamento di tutti gli altri, resi schiavi, dipendenti tossici dell’immagine negata. Non è un lavoro facile, tutt’altro: futuribile, simbolica, oppure schiettamente realista, la Commedia mescola generi, toni, vocazione didattica e parabola allegorica. Ma certo è indicativa: quel che è successo dopo il 1934, quando Canetti scriveva il testo, lo sappiamo.
Claudio Longhi, allora, invade la scena e la platea dello Storchi di Modena con coraggio e determinazione, continuando in un percorso di teatro politico, aperto stagioni fa con La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht. È un teatro, il suo, che si interroga sulla società, illuminandone anfratti poco chiari, tendenze in atto, e cerca di rispondere alle contraddizioni e alle micro e macro paturnie quotidiane, offrendo spunti di riflessione, anche esempi eclatanti, e soprattutto cercando di agire concretamente nel tessuto sociale.
E dunque che ha fatto Longhi con questa ingarbugliata materia di Canetti?
L’ha certo resa più essenziale, stringendo opportunamente il testo-fiume a un’edizione, comunque cospicua, di quasi quattro ore. Ha imbastito un vero e proprio circo, evocando l’interno di un classico chapiteau, con la complicità scenografica di Giulia Buzzi, i costumi di Gianluca Sbicca, le luci di Vincenzo Bonafini e i video di Riccardo Frati. E ha chiamato a sé un esercito di interpreti (quasi trenta, più o meno maturi), tutti o quasi impegnati in molteplici ruoli, per dar voce e corpo alle tante figure create da Canetti. È un circo decadente, espressionista, a tratti sboccato: un clima da fine del mondo, in cui tutti cercano o riparo o la fine. Un mondo che sarebbe piaciuto a Grosz o a Otto Dix, sincopato, violentemente calcato. Un circo in cui le fiere da esibizione sono gli esseri umani.
Così, procedendo vorticosamente per numeri, per attrazioni “circensi”, con inserti canori e musica dal vivo (cimbalon e violino), Longhi ha snocciolato la parabola umana della Commedia. In tale magma di temi e situazioni, il ritmo procede naturalmente in modo altalenante: l’apertura è frenetica, con invasione della platea – peraltro usata spesso nel corso della serata – e con un vorticoso susseguirsi di situazioni e intenzioni. Poi pian piano si distinguono personaggi e contesti: spicca subito l’ottimo Fausto Russo Alesi, che sarà colonna portante della narrazione, in ben tre ruoli, cui fanno da contraltare tre figure femminili, affidate di volta in volta alle brave Diana Manea e Franca Penone con, a completare il trio, l’esotica e notevole presenza della greca Aglaia Pappas.
A simili personaggi, però, difficilmente ci si affeziona: nessuno si salva. Ed è impossibile identificarsi in questa deriva al tempo stesso concettuale e radicalmente sentimentale di una società al suo collasso. Eppure, proprio quella caoticità, quel susseguirsi incalzante di scene e persone-personaggi, quella sovrapposizione asfissiante di possibilità e di sfuggenti vicende, diventa metafora dell’imprendibile presente. È la vertigine della perdita di identità che si muta in ricerca dell’Uguale, è il crescente rifiuto dell’Altro, il rifugiarsi in qualcuno che possa confermare quell’identità caduca e far addirittura da specchio. Questo aspetto emerge aspramente nella lettura che Longhi dà del testo di Canetti: certe soluzioni sceniche, certi rapporti smaccatamente sensuali, vengono mostrati proprio come smaniosa ricerca di conferma di Sé: quando non sappiamo chi siamo, abbiamo paura del diverso, dello sconosciuto, dell’Altro.
È tutto un po’ troppo gridato, a tratti stridente nella messainscena. Ma, oltre ai citati protagonisti, emergono anche altre buone individualità nel gruppo, che vale comunque la pena citare nella sua interezza (e in o.a.): Donatella Allegro, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Eugenio Papalia, Simone Tangolo, Jacopo Trebbi. E con loro, i giovanissimi Rocco Ancarola, Simone Baroni, Giorgia Iolanda Barsotti, Oreste Leone Campagner, Giulio Germano Cervi, Brigida Cesareo, Elena Natucci, Marica Nicolai, Nicoletta Nobile, Martina Tinnirello, Cristiana Tramparulo, Giulia Trivero, Massimo Vazzana.
Alla fine di questo frastagliato spaccato politico-esistenziale, emergerà prepotente la voce del Maschio dominatore, l’uomo solo al comando, quello che saprà sfruttare la fragile identità altrui.
Da questo spettacolo si esce, almeno io sono uscito, frastornato, preoccupato, divertito, amareggiato. Tutto era già lì, in quelle parole, in quel circo di morte. Ma il mondo non ha cambiato rotta. Il futuro distopico è oggi.
Devi fare login per commentare
Login