Teatro
La tragedia, tutta italiana, del Vendicatore
Non è passato molto tempo da quando Rocco Casalino, autorevole portavoce del governo, già nello staff di Lele Mora e adesso di Giuseppe Conte, giurava vendetta nei confronti del ministro Tria. E ancora meno ne è passato da quando un tipo cercava di investire con la propria Mercedes il buttafuori reo di non averlo fatto entrare in discoteca. Con buona pace di quanti sostengono che la vendetta è un piatto da servire freddo, pare invece che la pratica sia invece calda assai, almeno in Italia. In questo paese sempre più rancoroso, invidioso, violento, la vendetta resta nell’orizzonte del possibile: non si chiede giustizia, ma ci si fa giustizia.
Tra Mafia, Camorra, Ndrangheta, massoneria e politica, basta fare, dire o scrivere qualcosa di scomodo per scatenare reazioni, anche violente: le “ammazzatine” sono ancora all’ordine del giorno, così come messe al bando, le epurazioni, le ritorsioni, le ripicche e via dicendo. Altro che sedersi sulla sponda del fiume: nella terra di Rigoletto la vendetta è ancora tremenda.
Allora immagino che il raffinatissimo e coltissimo regista Declan Donnellan, tra i migliori registi europei, già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia, sempre affiancato dal compagno di vita e di lavoro Nick Ormerod, scenografo e costumista, si sia divertito tantissimo nel trovare incredibili assonanze tra una tragedia inglese dell’epoca di Giacomo I e la realtà italiana.
Donnellan ha messo in scena La Tragedia del Vendicatore, di Thomas Middleton, testo poco o nulla frequentato in Italia, al Piccolo Teatro di Milano, in coproduzione con Ert–Emilia Romagna Teatro, lavorando per la prima volta con attori italiani (ma aveva già fatto laboratori di alto livello: per chi volesse saperne di più sul metodo di lavoro, c’è un bel libro “L’attore e il bersaglio”, Dino Audino editore).
Gustoso divertimento in chiave pulp, meccanismo comico e drammatico – come si confà agli autori coevi di William Shakespeare – capace di affascinare, divertire, inorridire il grande pubblico, La tragedia del Vendicatore ha trama esile e intricata. Di fatto, racconta una vendetta virulenta e truculenta, niente altro.
Eppure, al di là del conclamato oggetto (la parola “vendetta” campeggia enorme, proiettata in grande sul fondale della scena), vi si scorgono tensioni e spunti curiosi. Intanto i personaggi hanno nomi evocativi: il protagonista è Vindice, il subdolo erede al trono è Lussurioso, e così via, quasi che il dramma si volesse rifare alle Moralità medioevali, a quel mondo impastato di simboli e indottrinamento in cui il teatro serviva pedagogicamente a rappresentare i grandi meccanismi etici in atto.
Poi, il contesto tutto italiano in cui l’autore colloca la vicenda, consente qualche elegante rimando alla cronaca recente, e quel Duca, abbronzato e cinico, ben riporta a certi primi ministri che si divertivano tra bunga bunga e nipotine di presidenti egiziani (ma ve lo ricordate?).
E ancora la dialettica aspra tra virtù e lussuria – le smanie di Lussurioso hanno come vittima la giovane Castizia – esplicitata in modo così smaccato, è pure elemento di non poco conto: chi fa compromessi? Davvero tutto si può comprare? Tutti sono in vendita?
Chissà a chi si riferiva, ma è curioso che Middleton – certo, un minore rispetto a Marlowe, a Kyd, a Shakespeare – abbia saputo raccontare così acutamente e allegramente le nostre future disfatte. E nella versione italiana, tradotta e adattata da Stefano Massini, l’attualità diventa non pedante riamando ma sottile allusione, brechtiana citazione.
Detto ciò, arriviamo allo spettacolo: come da scuola e cultura anglosassone, la regia di Declan Donnellan è nitida, pulita, dedicata agli attori. È un gioco frizzante di ritmi frenetici e rimandi poetici o estetici – anche grazie alle belle proiezioni sul fondale (calzanti le scene e i costumi di Ormerod).
Ci si diverte insomma, e un po’ si inorridisce con quei dettagli splatter in primissimo piano, ripresi dalla telecamera, in questa truculenta tragedia, che è puro intrattenimento elisabettiano.
Dunque, sulle musiche di Gianluca Misiti, l’operazione di Donnellan è una sapiente orchestrazione stilistica che fa esaltare il testo e gli interpreti, molti dei quali chiamati in più ruoli.
Nel cast spiccano allora Fausto Cabra, protagonista superenergetico come Vindice e poi subdolo nel travestimento di Piato che si fa mezzano per Lussurioso, affidato all’ottimo, davvero una grande prova la sua, Ivan Alovisio, ironico e tagliente. Bene, con l’eleganza e la sapienza di sempre, Pia Lanciotti, che è la bigotta ma corruttibile madre di Vindice e la manipolatrice moglie del Duca, ben interpretato da Massimiliano Speziani.
A completare il nutrito cast, anche se con prove altalenanti, sono Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Martin Ilunga Chishimba, Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Errico Liguori, Marta Malvesititi, David Meden e Beatrice Vecchione. Al Teatro Argentina, nell’ambito della stagione del Teatro di Roma, tutti hanno raccolto caloroso consenso.
Nel rutilante balletto di morte del finale, tutti contro tutti, vendetta su vendetta, arrivismo su arrivismo, non si salva nessuno. Forse dovremmo ricordarlo a Rocco Casalino?
(nella immagine di copertina: Fausto Cabra, foto di Masiar Pasquali)
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