Teatro
La tragedia secondo Jan Fabre
Non ho seguito tutte le 24 ore di spettacolo: sono stato dentro al Teatro Argentina di Roma solo 12 ore, in due tranche. Dunque la metà esatta del previsto: la prima giornata fino alle 2 di notte, la seconda a partire dalle 13,30.
Non ho dormito lì, non mi sono risvegliato lì. Ma in tanti l’hanno fatto.
Perché Mount Olympus, il rutilante, enorme, straripante spettacolo che Jan Fabre ha presentato nel bel cartellone del Romaeuropa Festival, pretendeva questo. Un rito totale di 24 ore, dalle 19 di sabato pomeriggio alle 19 del giorno successivo. Non è un record (Bob Wilson fece un lavoro di sette giorni a Persepoli), ma poco ci manca.
Allora il primo piano è emotivo, sociale, collettivo: all’ingresso del teatro, prima dell’inizio, ho trovato gente con i sacchi a pelo, con gli zainetti pieni di scorte di viveri, ma tutti con un’aria rilassata e festante da campeggiatori al mare. Vengono da vari Paesi, sono addetti ai lavori e normali appassionati, giovani e meno giovani: tutti là, insieme, per partecipare a quella strana festa del teatro, a questo “evento” con tutti i crismi targato Romaeuropa. E di fatto il coinvolgimento di pubblico è stato significativo (la partecipazione alle 24 ore sono raccontate bene su Teatroecritica): i 40 minuti di applausi finali sono stati l’apoteosi di una partecipazione costante, emotiva, addirittura febbrile, senza dubbio empatica.
Dunque è interessante e sorprendente vedere questa mobilitazione collettiva, questo bisogno di partecipazione a qualcosa di faticoso, di antico e apparentemente desueto, anacronistico. Quella cosa strana che è il teatro.
Forse è tutto qui, lo scopo di Jan Fabre: spingere alle estreme conseguenze della condivisione teatrale, chiedere al pubblico quanto chiede ai suoi straordinari, meravigliosi, generosi performer. Per questo torna – almeno apparentemente – alle strutture primarie del tragico, per questo spinge il gruppo motivatissimo di interpreti ad andare oltre ogni limite fisico. Sono instancabili, sono perfetti in ogni istante (anche tre italiani in scena in una compagine tutta europea), sono un sovraccarico di energia che non cede un istante, un flusso ininterrotto di danze, gesti, movimenti, degni di veri “atleti del cuore”.
Proprio su questi officianti il rito occorre soffermarsi: corpi bellissimi, tutti, che diventano emblema di una classicità – anche manierata o posticcia – che fa da base alla ricerca di Jan Fabre nella scalata di questo monte Olimpo, per “glorificare il culto della tragedia” (così recita il sottotitolo dello spettacolo).
Il lungo percorso di preparazione a questo lavoro ha fatto sì che i selezionati per comporre il cast fossero davvero eccellenti nella presenza fisica, forse meno su quella prettamente attorale (i toni recitativi sono in complesso tre per tutti: l’urlato, l’affaticato, il parlato), ma non è quello che importa. Qui preme altro.
È l’insieme, è la tensione verso il senso del tragico che eternamente ritorna. Tutti i grandi Maestri ci si sono interrogati, prima o poi. Per citarne solo due, italiani: Luca Ronconi, che sostanzialmente negava la possibilità del Tragico greco nel contemporaneo, essendo venuti meno la comunità, la religiosità, il rito stesso, e si rapportava alla tragedia in modo ironico; a Romeo Castellucci che invece ha indagato quelle possibilità, dapprima nell’indimenticabile Orestea e poi nel complesso, articolato, profondissimo percorso della Tragedia Endogonidia.
Per Fabre il discorso sembra essere altro. A lui preme innanzi tutto raccontare di sé, del proprio essere artista in questa società. E dunque svelare (o ritrovare) il Dionisiaco, il rito primigenio e umanissimo, che pulsa come magma nella creazione teatrale. Dioniso è il grande protagonista, chiamato in carne e ossa a far ripartire la follia bellissima e terribile del suo culto. Nello spettacolo tutte le metafore sono sessuali. Il fallo rituale non è più simbolico ma un pene vero e proprio, colto in tutte le “estensioni” possibili – a cominciare proprio da una vistosa erezione propiziatoria ad inizio spettacolo. Il fauno diabolico appare spesso in scena, mentre gli attori vestono semplici lenzuola che svelano, più che coprire.
Ogni scena è sesso, ogni accostamento è estremamente fisico: è il corpo a farsi assoluto protagonista. Mi veniva in mente, nelle ore di visione dello spettacolo, un piccolo libro di Jean-Luc Nancy, che si intitola appunto Corpo Teatro (Cronopio edizioni). Scrive il filosofo francese: «C’è una esemplarità irraggiungibile della tragedia. Che essa sia esemplare significa che pensiamo (rappresentiamo, immaginiamo, sogniamo forse: conta poco in questo caso) di poterci o di doverci sempre riferire a qualcosa di essa: ci è necessario cioè pensare che in essa si stringa il nodo elementare dell’esistenza, quello che lega alla sua insignificanza o alla sua infelicità. Ma che la tragedia sia irraggiungibile vuol dire che quel nodo non può più stringersi per noi, se non a titolo individuale (…) non possiamo più fare ricorso a una verità più alta (o più profonda) a cui il “tragico” permetterebbe di accedere come a una possibilità di trovare ancora, nonostante tutto, un senso; anche se si dovesse trattare di un senso dell’abbandono di senso».
Il senso di Mount Olympus è la sua celebrazione vitalistica di oggi. Inutile provare a descrivere le tante scene. Lo spettacolo ricalca grossolanamente quel che sappiamo delle tragedie classiche: parodoi, episodi, stasima sono facilmente rintracciabili in una struttura che non esclude reiterazioni e ripetizioni ossessive anche di sequenze intere. Di tutte le tragedie che attraversa la drammaturgia originale, testi dello stesso Fabre con Jeroen Olyslaegers e drammaturgia di Miet Martens, rimangono lacerti, evocazioni, situazioni o rimandi al contemporaneo (non è un caso che si citi reiteratamente la Callas). Sono semplici reperti, fossili verbali che evocano o collocano: ma la Tragedia, quella vera, l’abbiamo conosciuta e capita meglio in altre occasioni.
Fabre, si diceva, come al suo solito prende spunto da quella materia per parlare, alla fine, della sua visione del mondo, del suo ruolo, ovvero “dell’Artista”. In questo caso appare chiara la metafora di fondo: l’Artista è l’eroe tragico del nostro tempo. È solo e potente nella sua lotta, ma ha bisogno d’amore. Questo assunto è ripetuto ossessivamente, fino alla fine. Qui non c’è – fortunatamente – più “religio”, se non nel rinnovato o parodico culto di Dioniso. Dicendo addio agli dei, non resta che l’uomo e il suo mondo: e, nella terra del rito laico che è il teatro, si tratta di ritrovare il mistero, o l’accadimento.
Scrive Nancy: «Un culto si articola quindi sempre intorno all’attesa che qualcosa accada, abbia luogo, si produca e appaia dal fondo di un’inapparenza essenziale. Questo si chiama “sacrificio”: si fa sacro. Il corpo teatrale che rende sacra la propria presenza – cioè la sua anima, o anche la sua creazione, la sua iscrizione cosmica, la sua gloria, il suo godimento, la sua sofferenza e la sua derelizione: con una sola parola, la sua comparizione come segno fra i segni (…) La teatralità non è né religiosa né artistica – anche se la religione e l’arte derivano da essa. È la condizione del corpo che è esso stesso la condizione del mondo: lo spazio della comparizione dei corpi, della loro attrazione e repulsione». E conclude: «Ciò di cui bisogna tener conto è il fatto che una “cultura” consiste proprio nella possibilità di mettere insieme e formare un modo dello spettacolo, cioè di presentare e significare che non appena c’è un mondo, ci sono corpi che si incontrano, si distanziano, si attirano, si respingono, si mostrano gli uni agli altri mostrando contemporaneamente dietro di loro, intorno a loro, la notte incorporea della loro provenienza». È questo il punto altissimo e lirico, o meglio quel che per me è il senso profondo di Mount Olympus: al di là del rutilante evento, oltre l’ingombro della personalità assoluta del regista, c’è il “sacrificio” dei performer. Un sacrificio gioioso e ludico, brutalmente fisico, organico e orgasmico, che riesce a imporsi anche sulla regia, arrivando direttamente allo spettatore. A difendere la bellezza, a difendere il mondo da se stesso, a superare il tragico per approdare nella vibrante e poetica follia, bastano loro.
E voglio citarli tutti questi lottatori della bellezza: Lore Borreman, Katrien Bruyneel, Annabelle Chambon, Cédric Charron, Renée Copraij, Anny Czupper, Els Deceukelier, Barbara De Coninck, Piet Defrancq, Mélissa Guérin, Stella Höttler, Sven Jakir, Ivana Jozic, Marina Kaptijn, Gustav Koenigs, Sarah Lutz, Moreno Perna, Gilles Polet, Pietro Quadrino, Antony Rizzi, Matteo Sedda, Merel Severs, Kasper Vandenberghe, Lies Vandewege, Andrew Van Ostade, Marc Moon van Overmeir, Fabienne Vegt.
Nella lunga sequenza di lotta e nella danza che porta al finale – coloratissima, pop, kitsch – dopo 24 ore in scena, hanno ancora energie e precisione, per celebrare, degnamente il vecchio Dioniso. Di cui, pare proprio, abbiamo ancora gran bisogno.
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