Teatro

La tragedia (borghese) di Calderon vola oltre Pasolini

10 Maggio 2016

Da tanto, troppo tempo, non vedevo il teatro di Federico Tiezzi. Colpa mia, naturalmente, ché il maestro, invece, ha continuato nel suo percorso creativo con momenti di grande valore. Eppure, all’ombra di certi suoi lavori passati mi sono formato e il ricordo indelebile di quei momenti mi accompagna.

Quel lirismo, quell’aderenza tutta teatrale alla poesia che si faceva non solo magistrale e elegante visionarietà, ma tagliente e incisiva parola – declinata spesso nella maschera struggente di Sandro Lombardi – hanno reso imprescindibili, per me, molti degli spettacoli di Tiezzi.

Sono andato dunque al teatro Argentina di Roma, per il Calderón di Pier Paolo Pasolini, e ne ho ancora i polmoni pregni e il cuore emozionato.

L’altro giorno mi sono interrogato sul senso e sulle pratiche della “regia” oggi, e per l’appunto il Calderón è la dimostrazione evidente per cui, nonostante questa stagione di algoritmi e di fatiche degne di Sisifo, il teatro possa ancora volare altissimo.

Calderón, in scena Camilla Semino Favro e Arianna Di Stefano, foto di Achille Le Pera
Calderón, in scena Camilla Semino Favro e Arianna Di Stefano, foto di Achille Le Pera

Lo spettacolo è un affresco di rara potenza ed eleganza, calibrato in ogni dettaglio e in ogni parte, affidato dal regista a un gruppo magistrale di attori e attrici.

Eccola là, la regia: aderenza al dettato del testo, con la capacità di svelarne significati, sensi, possibilità; cura magistrale del piano attorale, in un’orchestrazione stilistica che sa dare respiro profondo, arioso, all’opera; ambientazione scenografica significativa – non necessariamente dominante, straniante o “provocatoria”! E infine: attenzione costante per il pubblico, per la ricezione, financo per la comprensibilità di quanto accade in scena. Pare poco: ma di fronte al Calderón ci si ricorda che esiste anche la “serie A”, un livello, una maestria, una eleganza che tante volte inseguiamo (da spettatori professionisti) inutilmente.

Calderon, regia di Federico Tiezzi, foto di Achille Le Pera
Calderon, regia di Federico Tiezzi, foto di Achille Le Pera

Non è solo questione di “mezzi”: certo, qui a produrre ci sono due Teatri Nazionali (quello di Roma e quello della Toscana – che peraltro denuncia gravi problemi di bilancio), e lo spettacolo non è certo lowbudget, ma la questione non è economica.

È di visione, di capacità di gestire la scena, di progetto.

E il “progetto” attorno e su Pasolini fatto da Tiezzi, con l’apporto drammaturgico di Sandro Lombardi e Fabrizio Sinisi, svela una profonda articolazione: fa pensare, un po’, a quanto fatto recentemente da Bob Wilson con il Berliner Ensamble.

Graziano Piazza, foto di Achille Le Pera
Graziano Piazza, foto di Achille Le Pera

Si è trattato – almeno così l’ho vissuta io – di sottrarre definitivamente la poetica teatrale di Pasolini da tutto il pasolinismo manierato di “figli, vedove e orfani”, che ha invaso le nostre scene, e di astrarlo a tal punto da renderlo non solo più comprensibile e chiaro, ma anche – affrontato nelle fattezze e alla stregua di un “classico” – finalmente sciolto dal cerebralismo, dall’intellettualismo e dal politicismo in cui troppo spesso è incasellato. La ricerca formale, insomma, si fa sostanza. E così diventa ormai sterile interrogarsi sulla categoria “borghesia” come lo sarebbe investigare l’attualità, che so, di “eroi” o “schiavi” della tragedia greca.

Di fatto, dunque, al di là della complessa trama e degli infiniti rimandi a La vita è sogno di de la Barca o a Las Meninas del Velazquez, Pasolini si libra nel suo teatro poetico-politico, ed esplode nel grido finale che è invocazione alla libertà personale e collettiva.

Dunque la “tragedia borghese”, il rito pasoliniano declamato nel Manifesto del 1968, si invera in questo Calderón, nella sua più aspra e nitida compiutezza. Il verso poetico si declina in possibilità concreta, il dialogo dell’Autore con il suo pubblico borghese si fa nuovamente urgenza e necessità, oltre ogni pedanteria o nostalgia: svuotato dalla temperie storica, astratto come fosse Eschilo, Pasolini non è più solo quello che “sa i nomi” (sbarcato ormai anche nei bar chic del Pigneto), non asceta o profeta, ma un tragico, vero, complesso, oscuro.

E occorre dar merito non solo al regista, ma al cast, che si fa portavoce straniato e straniante, addirittura clownesco – ma al tempo stesso razionale, vibrante e aderente – del difficilissimo testo. Dall’impeccabile Sandro Lombardi, “augusto” nerovestito, narratore e re Basilio, che tesse le fila con distaccata ironia.

Sandro Lombardi
Sandro Lombardi

Poi le tre Rosaura, che corrispondono ai rispettivi sogni-incubi: la bravissima Camilla Semino Favro (per me una scoperta, da premio!) eroina fragile e potente; poi Lucrezia Guidone, una “Mamma Roma” dai toni amari; infine la formidabile Debora Zuin, travolgente nella sua interpretazione. Accanto a loro, ecco l’eleganza infinita e l’inarrestabile bravura di Graziano Piazza come Sigismondo e poi come prete; il surreale e potente Manuel di Ivan Alovisio, il Pablo del bravo Josafat Vagni. Ottima Silvia Pernarella, nell’intenso ruolo di Carmen; come pure la mirabile doppia interpretazione (Astrea e Agostina) di Sabrina Scuccimarra, talentuosissima attrice che apprezziamo da tempo. A completare il nutrito gruppo, ecco la sontuosa Francesca Benedetti, la vitale Arianna Di Stefano e Andrea Volpetti.

Lucrezia Guidone e Silvia Pernarella
Lucrezia Guidone e Silvia Pernarella

Le belle scene sono di Gregorio Zurla, gli onirici costumi di Giovanna Buzzi e Lisa Rufini; le raffinate luci di Gianni Pollini.

Insomma, una festa del teatro. Che sia aristocratica, borghese, proletaria è difficile e forse inutile dirlo. Comunque una tragica festa. Viva e disperata, come sono questi tempi dove i sogni fanno presto a tramutarsi in incubi.

 

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