Teatro
“La Sposa Blu” e la rivolta delle marionette
Il teatrante e la marionetta. C’è una profonda e invisibile relazione che lega quelle figure artigianalmente costruite dall’uomo a propria immagine e somiglianza e chi entra in contatto con loro in un palcoscenico. Nelle opere più riuscite _ dove si assiste ad un incontro alla pari _ si percepisce tra i due il passaggio di energia, un flusso magnetico che trasfigurando la marionetta colloca entrambi su uno stesso piano. Non è solo un fatto visivo ma anche emozionale. Profondamente teatrale. Se per questo si intende l’arte di evocare storie, sperimentare spostamenti di realtà rimescolando carte e sovvertendo status quo. È quanto accade in “La Sposa Blu” spettacolo della danzatrice e attrice Silvia Battaglio, prodotto da Zerogrammi visto nei giorni scorsi al teatro Massimo di Cagliari, nell’ambito della rassegna “Circo in Villa” organizzato dal Cedac.
Il materiale a cui ha attinto la teatrante piemontese è il celebre conte de fées di Charles Perrault, “Barbablu”, parte di una raccolta di undici fiabe scritte nel 1697 intitolate“Contes de ma mère l’Oye”. Soggetto universalmente noto che ha fatto diventare addirittura mito e archetipo quel notabile ricco dalla lunga barba azzurra che uccideva le proprie mogli. Oggi si direbbe un serial killer. Nonostante le voci che correvano su di lui, quest’uomo agiato e misterioso riesce ancora ad impalmare una giovinetta. A lei Barbablù prima di partire in viaggio consegna le chiavi del maniero con la raccomandazione di non aprire una determinata porta. Ma la giovane moglie disubbidisce agli ordini e scopre i cadaveri delle precedenti mogli. Al rientro dal viaggio Barbablù sta per ucciderla come le altre ma il provvidenziale arrivo dei fratelli della moglieuccide Barbablù e salva la giovane in tempo. Questa la trama più celebre tratta da un racconto popolare e fatto proprio da Perrault.
La struttura della favola, come aveva individuato l’antropologo russo Vladimir Propp, segue un modello narrativo caratterizzato da alcune funzioni (trentuno quelle individuate dallo studioso) che caratterizzano il racconto stesso per personaggi e ruoli. Accade anche in “Barbablù” fiaba che si ritrova con la stessa trama in diverse parti del mondo. In comune hanno la stessa storia della giovane che, tentata dalle ricchezze del nobile, acconsente a maritarsi. Sono ovviamente nascoste dentro questo plot i motivi psicologici che connotano i personaggi principali. In “Il complesso di Barbablù. Psicologia della cattiveria e dell’odio” (edizioni Frassinelli) lo psichiatra Jean Albert Meynard fa un’analisi feroce mettendo in rilievo due elementi: il sangue (la stanza degli orrori ) e la chiave (talismano che apre le porte del potere e della conoscenza). Barbablù sarebbe un predatore impotente che gode solo nell’esercitare la violenza. E questo tema legato alla sessualità era già presente nella lettura fatta dallo psicologo austriaco Bruno Bettelheim (“Il mondo incantato”, edizioni Feltrinelli). Comportamenti riscontrabili in molti casi della cronaca nera moderna. Dice infatti Meynard: “Il complesso di Barbablù non è circoscritto a un’epoca. Gli stessi tormenti assillano l’uomo fin dalla notte dei tempi. Fare ricorso, a gradi diversi, alla violenza fisica o morale per ricavare piacere costituisce il menu sessuale di un gran numero di persone”. Ed è qui, nel cuore nero di quella fiaba che Silvia Battaglio, vestita da un lungo velo da sposa, colloca il racconto della prima parte: un viaggio nell’oscurità del male a cui pare impossibile ribellarsi. In un lento e regolare crescendo l’atmosfera si colora con le tinte cupe di un noir, distillando attimi di ansia e paura per la giovane donna dal destino già scritto e sulla quale incombe terribile la presenza di Barbablù. Nel buio quasi totale emerge solitaria l’illuminazione gialla e fioca di una lampada sospesa nel cielo che si alterna a rapidi fasci di luce che vanno a infrangersi sui velluti neri delle quinte. Dalla porta proibita emergono tre marionette che la sposa in blu porta via con sé, tre marionette: sono Elda, Hilda e Anna e hanno alle spalle una storia che vale la pena di conoscere.
Provengono dall’Istituto per i Beni Marionettistici e il Teatro Popolare di Grugliasco e raccontano una storia squisitamente al femminile che si snoda nell’arco di venti anni, tra il 1945 e il 1964 e riguarda Anna Toselli e le figlie Elda e Hilda. Rimasta vedova giovanissima Anna Toselli, artista anticonformista dotata di forte personalità che per il suo teatro si ispirerà a Vittorio Podrecca, il fondatore del Teatro dei Piccoli romano, lascia con le figlie Torino per Genova dove conosce e collabora con lo scultore e marionettista genovese Colombo Bottino (che le realizzerà diverse marionette) e fonda la compagnia Dercap con la quale lavoreranno diversi attori del capoluogo ligure realizzando diversi spettacoli di cui Anna e le figlie curano testi e aspetti diversi della scena. La compagnia si scioglie e cessa la sua attività nel 1964. Le marionette utilizzate in scena sono di rara potenza espressiva, indispensabili nella confezione dell’atto unico dove Silvia Battaglio prende in modo multidisciplinare elementi di danza e del teatro di figura per raccontare una storia di un mito visto con gli occhiali del nostro tempo.
E’ così un intreccio tra favola, storia e realtà allusivamente contemporanea che Silvia Battaglio cuce in un dramma che da monologo diventerà da ora in poi dramma a più voci o meglio, a più presenze. E’ un primo graduale ritorno alla vita scandito dalla musica di Bizet dei “Pescatori di perle” che Beniamino Gigli canta con voce lirica nell’aria “Mi par d’udire ancora/ ascosa in mezzo ai fior/ La voce sua talora/ Sospirare l’amor/ O notte di carezze/Gioir che non ha fin/ O sovvenir divin/ Folli ebbrezze del sogno, sogno d’amor”.
Un passo a due con Elda o Hilda cancella la solitudine della giovine sposa. Sono passi leggeri, veloci, movenze quasi impalpabili, dal gesto minimo e regale. Una coreografia che costruisce figure di commovente teatralità. Riecheggia il motivo d’antan di Patachou “Domino” (“Domino, Domino/Le printemps chante en moi,/Dominique/ Le soleil s’est fait beau/ J’ai le cœur comme une boite à musique/…”). Un gesto materno, una carezza tenendo la marionetta sul proprio grembo come una Pietas blasfema e profana del nostro tempo che ha conosciuto la ferocia della guerra, la fuga da mondi in fiamme. Ecco il miracolo che Battaglio, tra danza e uso teatrale delle splendide marionette, compie: queste iniziano a muoversi come la sposa, riacquistando, donne vilipese, donne violate, donne messe all’angolo, il movimento, la gestualità di chi reclama con urgenza il ritorno alla vita.
Dietro questa inedita versione del mito di “Barbablù” c’è un lavoro di scavo e di studio importante nutritosi della storia anche teatrale registrata nel passato. Iniziando dalla Germania dove il mito è stato oggetto di diverse messe in scena a teatro: anche un dramma per marionette di Georg Trackl, poeta maledetto vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento intitolato “Blaubart”. In Russia diviene materia per riletture di danza. Dagli inizi del balletto, ai primi dell’Ottocento, fino a giungere all’opera “Il Castello del principe Barbablù” (1911) di Bela Bartók con il libretto di Béla Balász che oltre a Perrault si era ispirato a “Ariane et Barbe Bleu” di Maurice Maeterlink. Un capolavoro del teatro musicale opera fortemente psicologica che cambia il finale del racconto. Judit infatti alla settima e ultima porta non scoprirà cadaveri e sangue bensì tre donne riccamente addobbate: sono le mogli precedenti di Barbablù: una per il mattino, una per il meriggio e una per la sera. Judith sarà quella della notte. A quel punto la porta si chiuderà. Il buio cade sul castello e sulla solitudine di Barbablù.
Molti anni dopo a Wuppertal, nel gennaio 1977, è Pina Bausch a riprendere la musica di Béla Bartók in “Herzog Blaubarts Burg”. Dal testo di Balász Bausch prende il luogo del castello come prigione e luogo di oppressione, finestra su rapporti sadomasochisti. Un’arena di azioni crudeli e fortemente teatrali. Baricentro pesante del lavoro il danzatore Jan Minarik che lavorò a stretto contatto con la Bausch e lo scenografo Rolf Borzik. Scrivendo su “Repubblica” in occasione della prima nazionale (maggio 1985 a Venezia) la critica di danza Leonetta Bentivoglio osservava come “Jan Minarik e Beatrice Libonati (marito e moglie, tra l’ altro, anche nella vita). Inscatolati nella scena a firma di Rolf Borzik (una stanza di livido biancore, col pavimento cosparso di foglie secche a mucchi), Barbablù e Gertrude conducono l’azione in un itinerario teso e stralunato, fatto di fughe, rincorse, abbracci, reiterate violenze. Quasi sempre circondati, in un’ invischiante moltiplicazione speculare, dai due gruppi degli uomini e delle donne: fantasmi che li rappresentano, “doppi” straniati e stranieri. E’ un rituale di attrazione-distruzione quello che li coinvolge, mentre atroce incombe, sublimata in una religiosità maledetta, la favola oscura del Barbablù che fa a pezzi insieme alla musica, le sue mogli”. Fino al crudele devastante finale “dove Barbablù, trascinando al suolo intorno a tutta l’area del palcoscenico la sua Gertrude come morta, rivestita negli abiti delle mogli-castellane uno sull’altro, rievoca a flash fissi, con secchi battuti di mani, gli affreschi di alcune delle immagini culminanti che hanno composto lo spettacolo. In una sintesi estrema e dolorosa che supera e raccoglie, nel tempo delle emozioni, ogni possibile realismo”.
Dall’originale racconto del Perrault, misogino e reazionario, siamo giunti, passando per Bartók e Balász, alla grande Pina Bausch, allo scontro tra i sessi, fatto di sopraffazione e violenza. E ora Silvia Battaglio. La coreografa e regista piemontese sceglie di andare oltre con un occhio ben attento alla nostra contemporaneità. Non rinnega assolutamente le interpretazioni forti come quella bauschiana ma, mantenendo un punto di vista assolutamente femminista, non rinuncia a rimescolare le carte e spostare in avanti. Restituisce la vita alle donne, togliendole dalla stanza-prigione via dal maschio predatore. Barbablù, che per buona parte della piéce era una presenza-assenza ingombrante e carica d’angoscia, è tagliato fuori dalla scena finale. Barbablù è quello di cui occorre liberarsi, può essere un uomo che ti perseguita ma anche un pensiero che ti opprime, magari dentro di noi e rappresenta le più recondite paure. Basta con tutto questo, dicono Silvia, Anna, Elda e Hilda. Ribellarsi è giusto.
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