Teatro
Intervista a Davide Livermore – la sfida feconda dell’Orestea
SIRACUSA. La vicenda artistica dell’Orestea di Eschilo diretta da Davide Livermore, che andrà in scena nel Teatro Greco come trilogia completa l’8 e il 9, a chiusura della LVII stagione delle Rappresentazioni classiche siracusane, è una vicenda che si presta a diverse considerazioni, sia dal punto di vista della necessità artistica di questo tipo di creazioni, sia dal quello della riflessione sulla possibilità concreta della messinscena contemporanea della drammaturgia attica. Cosa è accaduto sostanzialmente? Nella stagione scorsa, per ricordare i cento anni dalla prima messinscena delle Coefore nel 1921, si decide di affidare a Livermore (che nella stagione precedente aveva diretto l’Elena di Euripide) la realizzazione, in un solo spettacolo, dei due testi eschilei di Coefore e di Eumenidi. Quest’anno si è trattato di chiudere, ex post, la trilogia col suo primo dramma, ovvero con Agamennone. Un’operazione indubbiamente controversa, di difficile realizzazione ma che il regista affronta con l’energia che gli è propria e che sembra aver trasmesso alla vasta compagnia di artisti con cui sta vivendo questa esperienza siracusana. È importante riflettere su questa vicenda, anche perché questi spettacoli, dopo Siracusa, si rivedranno anche nel formato unitario della trilogia nella prossima stagione del Teatro Nazionale di Genova che li ha coprodotti. Ne abbiamo parlato direttamente con il regista.
Quale ruolo e quale peso deve avere nella cultura italiana contemporanea la riflessione militante, sia dal punto di vista scientifico che dal punto divista artistico e teatrale, sulla classicità? Potrebbe esistere una cultura italiana o europea che non riflettesse in modo serio e attrezzato sulla cultura greco latina?
«Le rispondo così: ciò su cui non possiamo smettere di riflettere è l’insieme degli archetipi culturali dei quali la letteratura greco-latina è portatrice prima e assoluta. Si veda appunto l’Orestea che ci parla del senso più profondo della giustizia nella società e nella nostra vita e ci spiega come continuare a impegnarsi e a perseguirla nonostante la sua umanissima fallibilità. È fondamentale per me rimanere agganciati a questo patrimonio, ampliando magari la riflessione sugli archetipi nell’apertura culturale e nel confronto con l’apporto di altre culture. Marginalizzare la cultura classica è assolutamente sbagliato».
Come si è trovato come regista con il formato drammaturgico della trilogia?
«È stato ed è molto divertente. Intanto perché ho cominciato mettendo in scena la seconda e la terza tragedia della trilogia, mentre quest’anno ho lavorato alla prima tragedia, ovvero all’Agamennone. Un’anomalia certo, dettata da un motivo concreto: l’anno scorso era il centenario della ripresa delle rappresentazioni classiche nel 1921, dopo la prima guerra mondiale. Si è voluto celebrare quel centenario. In generale tuttavia la trilogia, come formato teatrale, cambia quasi in nulla il gesto artistico della costruzione dello spettacolo: una narrazione resta una narrazione. Chi, come me, fa tanta “opera” sa bene che si tratta di una sfida narrativa, importante ma sostenibile e affascinante. Si pensi al Don Carlos di Verdi: ci si trova difronte a un dispiegamento narrativo lunghissimo e profondamente articolato. Una sfida: essere in contatto profondo con una narrazione che è fatta di appuntamenti, di refrain, di riprese. Tra l’atro il tutto accade in un luogo particolarmente importante e significativo. La trilogia è veramente per me una grande occasione: una sfida, un’occasione irripetibile per giocare fin in fondo a fare teatro e a raccontare una storia».
La sua scelta è stata ed è quella di legare la vicenda dell’Orestea ad una riflessione sul passaggio dal regime fascista all’Italia repubblicana e democratica. Perché crede che l’Italia di oggi abbia bisogno di una riflessione in questo senso? In altre parole quel è la radice politica viva della sua regia dell’Orestea?
«Queste riflessioni sono solo sue. Mi fa piacere sentirle ma non le accolgo e non raccolgo. Per me l’arte deve fare l’arte e non deve fare la politica. Perché è già politica in quanto tale. Mi spiego: un gesto artistico è già politico in sé e non c’è bisogno di marcare la politicità del gesto teatrale in maniera didascalica».
In questa sua lettura non pensa che vengano necessariamente trascurati gli elementi sacrali e rituali che pure sono presenti nel testo eschileo? Come ha cercato di recuperare questa dimensione?
«Al contrario: a me sembra proprio di muovermi in quella dimensione. Diventa religioso e rituale qualcosa in cui le persone si riconoscono. Altrimenti è qualcosa di obsoleto e distante. La religiosità e la ritualità a cui io tendo sono puntellata e da riferimenti interno alla contemporaneità, da allusioni a ciò che accade a noi. Altrimenti rischiamo di ricadere nella vuota consuetudine: qualcosa di più vicino a un museo che al un teatro pieno di senso. Il pubblico deve discutere e deve essere un attore profondo di quanto accade in scena».
Qual è secondo lei, giunto alla terza prova qui, la cifra particolare che caratterizza il teatro classico qui a Siracusa. Che cosa, che prima non c’era, ha portato questa esperienza nella sua professione?
«Ho avuto semplicemente la possibilità di affermare con forza e chiarezza una cosa che per me era una grande verità ma solo a livello teorico. A partire invece dall’Elena di tre anni fa ho avuto la certezza che la tragedia non è prosa, la tragedia è solo e soltanto tragedia e in quanto tale opera d’arte totale, fatta da tutte le arti insieme nella simultaneità. Questa cosa è importante perché oggi le arti sono molte di più e molto più complesse di quelle che erano una volta. Ad esempio, quella del “sound design” oggi è vera e propria arte e non tecnologia o artigianato. In questo senso può essere rivisitato inoltre anche il concetto di filologia teatrale. Non si tratta di rifare oggi quel che “forse” si faceva così nell’antichità, ma usare le conoscenze che noi abbiamo per giungere per giungere al fondo di una tragedia, metterne a fuoco gli ingredienti principali e, come faceva la camerata dei Bardi alla fine del ‘500, riscrivere questi testi per la fruizione contemporanea».
Crediti fotografici: Maria Pia Ballarino, Franca Centaro.
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