Teatro
La scortecata: il crudele barocco di Emma Dante
Non solo fiaba, ma espressione di un barocco al limite dell’osceno, “La scortecata” di Emma Dante è in questi giorni al Piccolo in un mini format da un’ora con taglio grottesco ma quasi commovente. Già presentato a Spoleto nel 2017, lo spettacolo riprende il napoletano “Cunto de li cunti” di Giambattista Basile con una verità teatrale che non ha niente di quella patina artefatta del film di Garrone. La stessa che in effetti si ritrovava nell’ultimo lavoro della Dante prodotto dal Piccolo due stagioni fa, “Bestie di scena”, manuale di un teatro “contro”, da Grotowski al Living, oggi ormai perduto, o peggio istituzionalizzato, congelato in una “maniera” che quello spettacolo aveva almeno il pregio di mostrare senza troppe ipocrisie.
Probabilmente la Dante con “La scortecata” è tornata indietro, alle ragioni allucinate del corpo e alle grida nel buio che già animavano “mPalermu” o “Le sorelle Macaluso”. Ma è un movimento che non ha nulla della regressione, perché non significa tanto rimandare un’evoluzione, quanto recuperare una sincerità artistica, una schiettezza espressiva che i due attori in scena hanno dal primo all’ultimo minuto di questo racconto. Si tratta di Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, qui nelle parti di due vecchie sorelle rifiutate dal mondo; servi, anzi serve di scena che siedono accanto a un castello giocattolo per riaccendere un’ultima, breve speranza di evasione. Dalla vecchiaia? Dall’infelicità? Ogni ragione è valida purché si abbiano due “seggiulelle” e una porta a disposizione, per piombare nella fiaba del re che si unisce a una vecchia (quasi) a sua insaputa, mentre l’altra si rode dall’invidia.
Ed ecco i corpi, il dialetto, il verso in senso animalesco e poetico insieme, il teatro che mette in scena se stesso un’ultima volta prima di accorgersi che ormai è troppo tardi, perché il tempo della finzione, dei re e dei castelli è finito. Così l’ultimo macabro desiderio, a commedia ultimata, è di farsi scorticare, e lo spettacolo si chiude col coltello tremante nelle mani di D’Onofrio che aspetta il buio prima di accanirsi sulla carne del suo collega. Sadomasochismo di scena: sempre il teatro come crudeltà, condanna e insieme lacerante passione a cui chiunque in sala non potrà rinunciare: attore, regista, spettatore di passaggio o addetto ai lavori che sia. E ancora una volta è il Sud Italia che, nelle mani della Dante, diventa un portale per qualcosa che ha a che fare con tutti al di là di provenienza, pensieri e sentimenti più o meno consci: come se la regista accedesse a una regione più antica e quasi proibita dello spirito che, misteriosamente, nel suo teatro sembra subito comprensibile.
Foto di Franco Lannino.
Devi fare login per commentare
Accedi