Legislazione

La doccia gelata di Franceschini sul fermento dei teatri italiani

6 Marzo 2015

Dopo le prime risultanze dell’attesa riforma dei teatri varata dal ministro Dario Franceschini, la sensazione che si ha è quella della maionese impazzita. Ossia che qualcosa sia sfuggito di mano, che – sicuramente senza dolo – ci sia comunque una generale confusione. Gli ingredienti erano più o meno esatti, la volontà condivisa, i passi sono stati tutti giusti, ma la maionese sta impazzendo lo stesso. Alla fine, questa riforma sembra non incidere sul sistema, come avrebbe voluto, e anzi pare stia creando ulteriori difficoltà.

Abbiamo sette Teatri Nazionali più 19 “Tric”, i teatri di rilevante interesse culturale di nuova istituzione, e aspettiamo di sapere quanti saranno i Centri di produzione. Va bene: e poi? Il discorso rischia di scivolare nel “tecnico”, proviamo a riassumere per chi non fosse al corrente: dopo decenni di attesa e circolari ministeriali, arriva un decreto avviato dall’allora ministro dei Beni culturali Massimo Bray, completato dal successore Dario Franceschini, messo in atto dal direttore generale del ministero Salvo Nastasi, per strutturare finalmente al meglio il polveroso mondo del teatro italiano.

Alla notizia, fummo per esternare giubilo ovunque, appagati ulteriormente anche dal fatto che il Mibact aveva convocato una “commissione prosa” come meglio non si poteva: stimatissimi professionisti, che generosamente (ovvero senza alcuna retribuzione) si accollano l’onere e l’onore di esprimere pareri qualitativi sulle domande fatte da teatri stabili, pubblici e privati, compagnie, centri, per i finanziamenti e le qualifiche future. Tutti pronti e compatti ai nuovi incasellamenti, alle nuove qualifiche.

Ma questa Commissione si è trovata ad agire in ambiti molto stretti, vincolata da norme legate a dati “quantitativi”, che limitano fortemente ogni riflessione sulla qualità: insomma, la deriva che prende subito la riforma è di impianto tecnicista, produttivista, manageriale. Dopo settimane di trepidante attesa, appena rese note le prime decisioni: i Nazionali sono sette, e non ci sono novità consistenti rispetto alla situazione precedente. Ne avevamo scritto. Resta malamente fuori lo Stabile di Genova, storico e prestigioso: un errore grossolano, lo dico pur non condividendo le scelte e le produzioni del passato, decisamente sottotono.

Entra il nuovo Teatro della Toscana, con Pontedera e Pergola di Firenze, alleati con la benedizione di Renzi. Esce di scena Trieste ed entra Napoli in mezzo alle polemiche per delle assunzioni fatte in fretta e male. Si fondono Venezia e Verona, e Bologna si rinsalda con Modena. Si confermano, ma questo si sapeva dall’inizio, Roma, Milano e Torino. Tutto bene? No, in molti cominciano a storcere il naso.

Il comparto Nazionali avrà una fetta di finanziamenti di circa 14 milioni di euro, da raddoppiare con i finanziamenti locali. È una partita seria, e chi è fuori protesta. Ma anche chi ha vinto, vacilla. A Napoli, nel clima già rovente della campagna elettorale, tra accuse e perplessità, il direttore del neoNazionale lascia la guida del prestigioso Teatro Festival. Al di là della persona, forse le due strutture avrebbero dovuto invece fondersi per dare maggior compattezza alla città. Intanto al Ministero vanno avanti: è la volta della seconda fascia, ovvero dei Tric, i teatri di rilevante interesse culturale. Anche se possono essere generosamente finanziati, di fatto non godono del prestigio del primo livello. E qui scoppia la bomba. Le magagne non sono poche.

A partire proprio dal Friuli Venezia Giulia. Qui, anziché fare rete, hanno scelto di correre ognuno per conto proprio. Non mancavano sollecitazioni alla collaborazione, come quelle mosse dal vivacissimo Centro Servizi Spettacoli di Udine, ma sono cadute nel vuoto. Alla resa dei conti, il CSS meritava davvero di più: invece, non è stato riconosciuto come Tric, nonostante un pluriennale e mirabile lavoro produttivo locale e internazionale, e l’ex Teatro Stabile di Trieste non è diventato Nazionale. Diverso il caso dello Stabile Sloveno, appartenente alla minoranza linguistica (e per questo giustamente tutelato). Ora vedremo che ne sarà de La Contrada di Trieste e della scuola “Nico Pepe” di Udine, che cresce di anno in anno, andando ad affiancarsi ormai alle maggiori d’Italia. Altrimenti l’intera regione risulterà davvero ridimensionata.

Altra magagna, poi, è nel riconoscimento a Tric del Teatro Eliseo di Roma: qualcuno, armato di pazienza, avrà seguito la diatriba fra vecchia gestione (famiglia Monaci, proprietari di minoranza) e aspirante neo gestore (Luca Barbareschi). Una questione anche squallidina, di compravendita di azioni, affitti e ripicche, che ha fatto sì che il teatro di via Nazionale sia chiuso da metà stagione. Nonostante ciò, il progetto presentato da Barbareschi deve essere stato molto bello, dal momento che – non ancora riaperti i cancelli – la sala è già Tric.

Sono in questa fascia anche il Teatro Due di Parma e la Fondazione Piemonte Europa di Torino (già Centro di Innovazione, che si affianca, nel capoluogo piemontese, al Nazionale, ossia l’ex Teatro Stabile). Due Tric a Milano (Elfo e Franco Parenti) e a Brescia (l’ex CTB), poi Prato (l’ex Stabile puntava giustamente al riconoscimento come Nazionale); Marche, Abruzzo e Umbria. A Genova il Teatro della Tosse diventa Tric come l’ex Stabile.

Appare chiaro che la spinosa questione è il Sud: l’abbiamo scritto, non ci sono Teatri Nazionali sotto Napoli. La Sardegna ha meritatamente ottenuto un Tric, e se pure Bari festeggia (grazie all’unione di Abeliano e Kismet), ci si aspettava forse di più per il gruppo Koreja di Lecce. Certo la Sicilia è stata sottovalutata: probabilmente il Biondo di Palermo poteva essere un buon Teatro Nazionale, ma anche in città  e in regione non sono scattate le “fusioni” ventilate tra diverse realtà. E la Calabria? Un mistero. Non c’è nulla: non sono arrivate domande, dicono dal ministero. Varrebbe la pena chiedersi, allora, che fine abbia fatto il “Teatro Stabile di Calabria” che per un lungo periodo ha gestito il teatro Quirino (sì, quello di Roma, che rilevò quando fu dismesso dall’Eti).

Altro elemento di nota, e pure di polemica, è che nessun teatro per l’infanzia e la gioventù (ovvero il cosiddetto teatro ragazzi) sia diventato Tric. Questi centri, diffusi in tutta Italia, svolgono una attività notevole, encomiabile sotto tanti punti di vista, ma di fatto non si ritrovano nell’elenco dei Tric: perché? Ai Tric andranno circa 15 milioni di euro, mentre ai Centri di Produzione – ecco la terza fascia – andranno circa 13,5 milioni. Non pochi in totale (quanto ai Nazionali) ma da dividere in un numero decisamente maggiore di soggetti.

In questa categoria però c’è di tutto: dal citato CSS all’ottimo Ravenna Teatro, al Bellini di Napoli (che invece sta crescendo molto bene, aprendo al contemporaneo: perché non è stato riconosciuto Tric?) fino a soggetti che non godono, purtroppo, di grande fama, come la Casa del Contemporaneo di Salerno (corre voce di una gestione non proprio adamantina: sembra che non paghi le compagnie né gli artisti e abbia un buon numero di cause legali: forse un supplemento di indagine sarebbe opportuno, prima di premiare con riconoscimenti istituzionali).

Restano dunque aperte altre questioni, che la commissione prosa dovrà dirimere prossimamente: la prima riguarda proprio i riconoscimenti e le attribuzioni degli altri Centri di Produzioni. Ritengo auspicabile che questa categoria, certo la più vivace della scena italiana, possa godere di maggiore attenzione.Le domande sono tante e ci si preoccupa per spazi importanti che hanno fatto la storia della ricerca teatrale italiana – penso, per fare un esempio, al Teatro Vascello di Roma – che certo hanno meno “numeri” di tante “compagnie” di grande intrattenimento. Stesso discorso vale per i Festival: come mettere su uno stesso piano, che so, il festival dei due mondi di Spoleto e quello di Castrovillari? Se contano solo i “numeri” è ovvio chi “vince”, no?

La seconda questione riguarda alcune modalità di (auto)certificazione: per ottenere l’agognato riconoscimento, i teatri hanno prodotto materiali informativi e documentativi in cui hanno affermato di poter rispettare i vincoli imposti dal decreto. Molti di questi dati – ad esempio quello sull’incremento del pubblico – sono autocertificati. Sarebbe interessante verificarli – ci si chiede, ad esempio, che dati abbia fornito la Casanova Teatro di Roma, ossia la società di Luca Barbareschi, in merito all’affluenza di pubblico all’Eliseo chiuso.

E sarebbe infine elegante risolvere tanti dubbi, semplicemente rendendo note le motivazioni della Commissione Prosa. Probabilmente si spiegherebbero agilmente tante esclusioni e inclusioni, tante decisioni su cui sarebbe più che opportuno fare chiarezza. Altrimenti, come ha scritto il regista Massimiliano Civica in un bellissimo articolo apparso su Doppiozero, questa riforma sembra avere l’unico scopo di “tagliare i fondi” al teatro. «L’attuale riforma sancisce la sconfitta dei piccoli teatri, affermando che ha diritto di finanziamento pubblico solo il Grande Teatro, quello delle città, mainstream, innocuo e con una spruzzata di cultura libresca – scrive Civica – E le piccole compagnie si stanno convincendo che, senza i mezzi del Grande Teatro, non hanno la possibilità di lavorare. Ci stiamo convincendo che o il teatro è ricco, o non è teatro». Insomma, siamo al si salvi chi può e chi ce la fa, si arrampica per non sprofondare.

Nella guerra tra poveri che sta diventando il teatro italiano, tutti sono contro tutti, senza esclusioni di colpi. La maionese rischia davvero di impazzire, e di far acido per i prossimi anni.

 

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