Teatro
La politica, lo spettacolo e la rigenerazione umana
L’avete vista tutti la campagna promozionale per la nuova veste di Repubblica.
Una immagine simbolo e due parole contrapposte, a rappresentare una alternativa. Si trattava di scegliere, sostanzialmente, tra buono e cattivo. Passato o futuro (con Silvio Berlusconi), inizio o fine (con Trump), amore o guerra, eccetera: una via un po’ drastica, ma tant’è.
La questione che mi ha lasciato perplesso, nel ciclo pubblicitario, è leggere lo slogan che recita: Politica o Spettacolo?
La foto di sfondo, manco a dirlo, è un ritratto riconoscibilissimo di Beppe Grillo che si benda gli occhi. Il sottotesto, nemmeno troppo nascosto, è che la politica sarebbe la cosa “seria”, dunque buona, da salvare; mentre lo “spettacolo” sarebbe quella cattiva, da buttare. Io sommessamente, obietterei: semmai è il contrario.
Il linguaggio teatrale, lo ripeto sempre, è pervasivo: ma, fateci caso, è usato sempre in prospettiva spregiativa. A partire dal “teatrino della politica”, passando per i “nani e le ballerini”, per le “attricette”, i termini del teatro, per quanto condivisi e conosciuti, stanno sempre a indicare cose, atteggiamenti o persone da stigmatizzare. L’apice, poi, è incarnato ça va sans dire, da Beppe Grillo – discutibile per tanti aspetti, come tutti i leader politici – ma reo, agli occhi di molti, anche del reato di “provenienza teatrale”.
Insomma, Grillo non è altro che il solito “guitto”, e come tale non è da prendere in considerazione a prescindere. I “politici”, quelli veri, invece sì.
Non voglio dilungarmi su Grillo, rimando volentieri al bel libro di Oliviero Ponte di Pino (Comico e Politico, Raffaello Cortina editore) e torno a Repubblica.
Insomma, cosa fa la prestigiosa testata per guardare al futuro? Reitera i consunti luoghi comuni dello spettacolo, degli “attori mentitori” o delle “ballerine di facili costumi”, lo spettacolo come attività cialtrona, da contrapporre alla serietà di ben altri ambienti. Ci aveva già pensato la Chiesa cattolica a condannare i teatranti, in quanto turpi, vani e girovaghi: ma eravamo nel medioevo, e da Sant’Agostino a oggi qualche posizione – anche in Vaticano – è cambiata. Anche sotto il Cupolone c’è stata, insomma, una certa apertura in termini di rispetto verso chi lavora nello spettacolo. Per i creativi di Repubblica, invece, pare proprio di no. La campagna partiva da questo assunto:
è un vero e proprio ritratto dell’Italia e del Mondo quello che emerge dalla campagna pubblicitaria che lancia la nuova Repubblica: il ritratto di un Paese bifronte, sospeso in un tempo indefinito, prigioniero dell’eterno ritorno del passato; guidato da partiti nati per unire e che invece sono più lacerati che mai; tentato da facili scorciatoie populiste; incerto davanti a diritti che dovrebbero essere fondamentali e che invece sono ancora assenti.
Dunque lo “spettacolo” è la faccia nascosta, il lato B, del Paese bifronte. Per Francesco Merlo, che ha presentato sulle pagine del giornale l’immagine con Grillo “politica-spettacolo” il discorso era chiaro: «questa è la foto che ci confonde di più perché è quella dove Grillo è meno Grillo. Il bavaglio pannelliano infatti, sia pure nella variante della benda, è un numero di repertorio, un classico della politica trasformata in spettacolo, ben poco adatto a Grillo che, al contrario, ha trasformato lo spettacolo in politica». E poi l’articolo continua mettendo assieme teatro, spettacolo, televisioni, parodie, satira. Bagaglino e dintorni, insomma, come orizzonte di riferimento. I politici sono diventati commedianti, e la colpa è sempre dello spettacolo: ha addirittura osato contaminare la politica.
E se fosse semmai il contrario? Il dubbio, anche storicamente, sarebbe legittimo.
Certo, la politica in Italia fa le nomine: qualcuno dovrà pur farle, non ci scandalizziamo, anche se non tutte sono andate bene. Ma, di fatto, chi gestisce la macchina dello spettacolo si rivela spesso, se non sempre, amministratore oculato, appassionato, generoso, capace di fare le proverbiali nozze con i sempre meno fichi secchi. Quelli dello “spettacolo”, tanto sdegnati dai creativi di Repubblica, reggono le sorti di istituzioni importanti anche con poche o nulle risorse. Se l’Italia è famosa nel mondo – è un dato facilmente riscontrabile – è per il suo spettacolo, quello vero: l’opera, la danza, il teatro, la musica, il circo. I nostri artisti, gli uomini e le donne di spettacolo sono ambasciatori nel mondo del paese, a volte “nonostante” la politica.
Peraltro, qualche giorno fa, proprio Repubblica, nella sua ormai rinnovata veste grafica, ha pubblicato un bello scritto di Fabrizio Gifuni (toh, un teatrante) che ricordava la figura di Stefano Rodotà, la sua passione per il teatro, la sua “militanza”, non solo teorica e giuridica, al Teatro Valle Occupato.
Scrive Gifuni, parlando di Rodotà: «Stefano sapeva che il teatro era nato come momento centrale dell’esperienza della polis. Un luogo di conoscenza e dunque una necessità primaria dei cittadini prima ancora che degli artisti. Condividevamo l’idea che il teatro fosse anche il paradigma di un’idea inclusiva di società e di lotta contro ogni genere di discriminazione. Ci ritrovavamo in un pensiero a cui io sono molto legato e che non mi abbandona mai nel mio lavoro. Che il teatro la musica, il cinema, la letteratura, l’arte in generale non possano vivere nell’aberrazione del cosiddetto tempo libero in cui la rivoluzione industriale le ha relegate da secoli (…) come se esistesse davver un tempo delle cose serie – quello della produzione e del consumo – e un tempo libero in cui si va quando si è terminato di fare le cose serie».
Era su Repubblica, nella Terza pagina, lo scorso lunedì 27.
I teatri, oggi, sono sempre di più luoghi di rigenerazione umana e urbana. Lo spettacolo, questo mondo bistrattato, è lo spazio e il tempo in cui esseri umani si incontrano, si parlano e si ascoltano, si confrontano in una pratica democratica che troppo spesso la politica trascura. Il teatro è l’ultimo luogo che ci è rimasto per incontrarci e parlarci. Per osservarci in quel che siamo e che saremo. Lo spettacolo è, da sempre, lo specchio veritiero del nostro stare al mondo.
Ma non solo. Lo spettacolo è un settore animato, vissuto, sostenuto da professionalità alte, vere: penso agli attori, alle attrici, ai tecnici, ai registi, ai danzatori, ai circensi, agli organizzatori, a tutti quelli che sono in scena (o lì accanto), sera dopo sera, magari sopportando condizioni capestro pur di far vivere il teatro, il cinema, la musica, la danza – e così facendo rappresentano anche un comparto economico di tutto rispetto.
Diceva Mario Luzi: «Ci si domanda a che cosa serve la poesia. Quando uno si pone questa domanda, è perduto alla poesia. La poesia può servire ed essere inutile, essere inutile e servire. A che? A sentire fino in fondo l’enigma della vita, nel suo bene e nel suo male». Non sarebbe un’eccessiva forzatura se alla parola poesia sostituissimo “spettacolo”.
Mi viene in mente un’immagine di questa estate: il teatro fatto in strada, in una bella piazza, i bambini con il naso all’insù, la bocca spalancata di gioia e stupore. Il teatro in piazza, una cosa antica, semplice, uno spettacolo popolare che forse è un gioco, forse un sogno, forse “solo” una serata piacevole. Ma è un modo diverso, vero e vivo, di essere comunità: antico, misterioso, posticcio, eppure vero e vivo, travolgente e inquietante. Dall’Atene del V secolo, alle periferie di ogni città, il teatro è lo spazio per un respiro diverso, per uno sguardo e un ascolto diversi. Soprattutto quando e dove insiste nella integrazione sociale, nella marginalità, nel disagio, nella formazione di nuovi artisti e nuovi spettatori, ovvero nella formazione di nuovi cittadini. Lo spettacolo “serve” a rompere le barriere del linguaggio, a superare la paura dell’Altro, a tessere reti e creare ponti, legami, incontri.
In molti già lo fanno – dal Ministro, ai dirigenti, agli assessori e amministratori locali – ma se la “Politica” guardasse in modo più serio e rispettoso allo “spettacolo”, forse ne trarrebbe giovamento. E se la smettessimo di sminuire lo spettacolo dal vivo con questi luoghi comuni, probabilmente non solo la comunicazione ne uscirebbe meglio, ma anche il nostro Paese.
Di questo e di molto altro parleremo domani, al Brainsday organizzato dal nostro giornale a Milano. Ne parleremo con l’archeologo Emmanuele Curti, la filosofa Chiara Cappelletto, lo storico dell’architettura Marco De Michelis, con il regista Elio De Capitani, il coreografo Roberto Castello, il poeta e attore Gigi Gherzi. E ancora con il curatore artistico della Triennale-Teatro dell’Arte, Umberto Angelini, con il critico e studioso Oliviero Ponte di Pino e con quanti vorranno raggiungerci, dalle ore 14, alla Fondazione Feltrinelli.
(Nella foto di copertina: un affollato teatro Carignano di Torino)
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