Teatro
La musica di Verdi può gridare pace, può gridare amore
Giorni che sembrano perduti, di divorzi tra nazioni e rancori dilaganti. Popoli interi vittime di orienti e occidenti che si avvelenano a vicenda nel cunicolo della storia. Ma non è il presente, anche se sembrerebbe. È la Genova del Trecento, quella del suo primo doge, Simone Boccanegra, che dà il titolo a una delle opere più cupe di Giuseppe Verdi. E Myung-Whun Chung, coreano nel senso del Sud, la dirige alla Scala, nella versione di Federico Tiezzi già ripresa la scorsa stagione, con un sogno di pace che scalpita dalla bacchetta.
Tanto che questo affresco di guelfi e ghibellini in lotta, diventa per Chung «il simbolo di una fratellanza ritrovata», con i lutti finali come prezzo per la pace. «L’opera ha quasi un lieto fine» insiste il direttore, riferendosi alla riconciliazione pubblica e privata dei personaggi e della repubblica marinara, anticipata in partitura da alcuni sospiri musicali nel duetto dei protagonisti rivali, Simone e Fiesco: Piango, perché mi parla, solenne, ma rischiarato dall’invocazione di Simone alla sua amata Maria, perduta, e dalla visione del mare, origine di tutte le cose sia per Talete sia per questo ex pirata morente, interpretato da Leo Nucci con una sobrietà che spesso manca ai suoi Rigoletti. Poi il saluto alla figlia, il passaggio di consegne al giovane Adorno, la fiducia in una città finalmente pacificata: certo si muore, ma non sempre le speranze sono vane, non sempre è vano il dolore.
Trama quasi incomprensibile, complicata da un prequel e da un salto temporale più che ventennale: personaggi doppi che cambiano nome senza che gli altri se ne accorgano, salvo poi moltiplicare le agnizioni in corso d’opera, sfruttate da Verdi con meravigliosi climax e anticlimax. Nella sua prima versione del 1857 Simone era un «tavolo zoppo», riaggiustato nel 1881 insieme al librettista Arrigo Boito, ormai perdonato da Verdi, dopo che il «poetastro» scapigliato aveva pubblicato versi di fuoco sull’arte italiana di quegli anni, bussetani inclusi: «quell’altar bruttato come un muro di lupanare». Di nuovo insieme dopo vent’anni, i due lavorano sul dramma della riconciliazione tra gli amici-nemici Simone e Fiesco, a dimostrazione che spesso, direbbe Oscar Wilde, è la vita che imita l’arte.
Ed ecco la nuova versione, più matura e moderna, in cui una seduta in Senato emoziona più di qualsiasi duetto d’amore. Faide tra consiglieri, l’eco del popolo in sommossa: la politica in musica come più alta forma di ribellione contro soprusi e ingiustizie. La scena è ispirata da due lettere che Petrarca, «romito di Sorga», scrisse in contemporanea al doge Boccanegra e al doge di Venezia, in cui ricorda come «Adria e Liguria hanno patria comune». Guidato da tali chiare, fresche e dolci parole, Simone intona un vero e proprio Inno alla gioia per baritono: Plebe! Patrizi! Popolo, in cui grida «pace», in cui grida «amore», e non conclude con una modulazione alla tonica – troppo facile – ma cerca la suspense della relativa maggiore, della richiesta sospesa, con chiamata del pubblico a partecipare.
Il privilegio di avere Chung a dirigere questa e altre scene, con i suoi colori e i suoi rubati, aumenta per il coinvolgimento diretto richiesto. Da sempre engagé perché possa vedere unita la sua Corea prima di morire, il direttore riversa le sue speranze nell’autorevole spiritualità di Simone, con la giusta convinzione che la musica sappia trascendere i confini nazionali, perfino al di là del trentottesimo parallelo. Così Verdi diventa una forza persuasiva per il cambiamento, e tutti siamo chiamati a partecipare. Se si sentisse questo Simon Boccanegra prima di andare a votare, persino i referendum andrebbero in modo diverso.
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