Teatro

La morte di Danton: autopsia di una rivoluzione

21 Febbraio 2016

Esattamente 182 anni fa, il 21 febbraio 1834, il ventenne Georg Büchner mandava al suo editore francofortese la prima stesura de La morte di Danton. Aveva fretta, molta fretta, di avere un responso: aveva bisogno di soldi per scappare. Una vita in fuga, la sua, sempre con l’ansia, con la paura di essere arrestato. Era un rivoluzionario: cospirava, scriveva, istigava. E doveva scappare. All’editore Sauerlander e al critico Gutzkow il dramma piacque: gli fu pagata una somma pari a circa 800eu. Non molto, per quello che si rivelerà un capolavoro.

Il 9 novembre di tre anni prima, Georg Büchner si era iscritto alla facoltà di Medicina di Strasburgo, e aveva assorbito il clima di rivolta che ardeva in città contro Luigi Filippo. Scrive il Danton a ridosso di un’altra pubblicazione scottante: Il Mesaggero d’Assia, foglio militante immediatamente distribuito tra i repubblicani e tra i membri della Società dei diritti dell’Uomo, di cui Büchner aveva fondato una “cellula” a Giessen. Per questo si era messo a studiare la rivoluzione francese.

In un’atmosfera quasi shakesperiana, rievoca atti, parole, circostanze vere, accadute non troppo tempo prima: protagonisti di questo dramma sono Robespierre e Danton, due eroi della rivoluzione francese. Büchner aveva composto La morte di Danton in cinque settimane: il tempo è un elemento importante, in questo testo – tempo inarrestabile, soffocato e velocissimo, sia per la stesura che per la narrazione. Condensa la successione degli eventi, riprende citazioni e documenti, ma intinge la vicenda in una febbrile e potente visione teatrale, addirittura metateatrale, che può trasgredire liberamente le fonti in nome della resa scenica. Il teatro di Georg Büchner non è semplicemente documentario, o banalmente realistico: semmai è impregnato di una volontà di portare in scena la realtà e la complessità della natura umana.

«Non ricrea il mondo sulla scena, ma cerca solo di mostrarne un aspetto particolare – scrive Jean-Luis Besson in un testo dedicato al teatro di Büchner – Non cerca di globalizzare, cosa che gli sembrerebbe artificiale, ma lascia scorrere uno accanto all’altro i differenti frammenti, per mostrare il reale nella sua diversità».

Procede per giustapposizioni, con un montaggio già tutto novecentesco: la realtà e la rivoluzione, dunque, sono i grandi misteri evocati in questo testo.

Ha il sapore dell’evento, allora, la sontuosa trasposizione che Mario Martone ha fatto, con il Teatro Nazionale di Torino, dell’opera di Büchner nella nuova, efficacissima traduzione di Anita Raja.

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La Morte di Danton, foto di Mario Spada

Evento per la sua eccezionalità, con un dispiego di forze notevole, che fa merito al teatro torinese. Ricordo un solo allestimento, una quindicina d’anni fa, al CSS di Udine, firmato dal macedone Aleksandar Popovski, nella traduzione di Alessandro Berti, e con un cast giovanissimo e di qualità, tra cui Roberto Latini, Alessandro Riceci, Filippo Timi, Christian Giammarini, Fabrizia Sacchi e molti altri. Da allora, però, più nulla.

E invece La morte di Danton – come gli altri capolavori büchneriani – continua a parlare, in modo fecondo, del tempo presente e della natura umana. Così Martone, inseguendo quel filone di ricerca risorgimentale – ma a Torino suona concreto, quasi necessario – che lo ha spinto, tra cinema e teatro, a affrontare Leopardi o la Giovine Italia (con il film Noi credevamo), prende di petto il Danton e ne fa uno dei suoi spettacoli più riusciti, per imponenza, incisività, sottigliezza, acutezza.

L’opera è resa nella sua coralità, pur mantenendo cardini imprescindibili i due eroi che si combattono a colpi di parole. Danton e Robespierre: vizio e virtù, empatia e rigore, comprensione e inflessibilità, realismo e utopia. Sono due possibili estremi della natura umana, eppure assieme incarnano il declino inesorabile della lotta rivoluzionaria. Il lirismo impegnato, retorico e politico, si contrappunta sistematicamente a derive personali, quasi private. Il collettivo sfuma (o si concretizza) nell’individuale, si sperde nei mille rivoli di coscienze troppo instabili – anche laddove vorrebbero essere ferme come “stelle polari”.La rivoluzione fallisce, è il cupo messaggio di Büchner, divora se stessa e si muta in regime.

Giuseppe Battiston e Paolo Pierobon, foto di Mario Spada
Giuseppe Battiston e Paolo Pierobon, foto di Mario Spada

La scena è un gioco meraviglioso di sipari che velano e svelano, che separano spazi interni, addirittura oscuri, a luoghi aperti: Martone – anche scenografo – moltiplica il montaggio drammaturgico imposto dall’Autore, lo dipana in sequenze dal ritmo cinematografico, accompagna la natura del testo (senza forzare la mano) che già si struttura per contrasti, per sbalzi temporali e spaziali, per frammenti storici che precipitano nella straziante deflagrazione finale, marcia di violenza e morte.

Ma non solo: come fu per l’Edipo all’Argentina di Roma, Martone usa l’intera sala e dunque il pubblico come elemento strutturante e drammaturgico. Se là era la Tebe afflitta dalla peste, qui è il luogo dell’Assemblea dove si tengono i vibranti comizi oppure la piazza dove si muove il popolo.

Il respiro di questa corsa verso la disillusione e la morte è affidato a uno stuolo di straordinari interpreti. Hanno – tutti! – forza e carisma, nel dare corpo e voce a figure storiche e al tempo stesso mitiche: eroi, studiati, conosciuti, celebrati nel marmo di statue commemorative, qui diventano umane figure di una tragedia leggendaria.

Giuseppe Battiston, foto di Mario Spada
Giuseppe Battiston, foto di Mario Spada

Giuseppe Battiston è George Danton: lo è con il suo stile, quel suo modo appassionato e “sfatto”, quel gusto vivo per la parola e per la materica presenza della carne. Disincanto e ardore si alternano in lui: uomo sopraffatto dalla sua stessa storia. Da tempo sosteniamo la straordinaria qualità interpretativa di questo attore.

L’altro, è l’asciutto e tagliente Robespierre di Paolo Pierobon: eccezionale e spaventoso, aguzzo come quella lama di ghigliottina che disinvolto invoca. Talmente convincente che se si presentasse alle elezioni lo voterei. E se nell’originale, Robespierre a un certo punto praticamente esce di scena, qui resta incombente e silenzioso a lungo: determinante.

Nella dinamica tra quei due poli opposti si annida il nucleo oscuro del dramma: magma ribollente che fa da calamita per tutti gli altri ardori.

Paolo Pierobon, foto di Mario Spada
Paolo Pierobon, foto di Mario Spada

Quelli dei Dantonisti: Camille, Lacroix e gli altri, interpretati da Denis Fasolo (bravissimo), Massimiliano Speziani (impeccabile), Roberto De Francesco e Alfonso Santagata (che ritroviamo con grande gioia). I fedeli di Robespierre, invece, hanno le fattezze dell’ottimo Fausto Cabra come Saint-Just, del cinico Barère di Roberto Zibetti, di Pietro Faiella, Mariano Pirrello e Gianluigi Fogacci, un giudice in crisi di coscienza.

A dare ulteriore contributo a questa pagina di storia concorrono anche il Thomas Payne di Paolo Graziosi, con il suo fumoso monologo sull’esistenza di Dio; Giovanni Calcagno e Michelangelo Dalisi.

È una tragedia estremamente “maschile” questa Morte di Danton, eppure le poche donne hanno un ruolo significativo: Iaia Forte è Julie, l’accogliente e comprensiva moglie dello stesso Danton; mentre Irene Petris, bravissima, è la commovente Lucile, compagna di Desmoulins, che sceglie di morire. Poi ci sono le altre: le donne di strada, le sgualdrine, le dimostranti. Esponenti di un popolo che non può nemmeno godere, che non può far altro che vendersi, farsi possesso prima dei nobili, poi dei rivoluzionari. Fanciulle in fiore, eppure con una aspra consapevolezza, come è per la Marion della brava Beatrice Vecchione oppure consumate popolane come la donna interpretata da Luciana Zazzera, moglie di un Ernesto Mahieux che s’alterna da ubriacone a carceriere.

foto di Mario Spada
foto di Mario Spada

In questo spaccato tragico, poi, ci sono “cittadini”, aristocratici, soldati, signorotti: uomini e donne, comprimari e vittime della grande storia. Impossibile citare tutto il cast (altri dieci almeno), ma da ciascuno viene un contributo considerevole di impegno e bellezza alla riuscita del lavoro – come dai numerosi tecnici impegnati dietro le quinte.

Proprio sul ruolo del popolo si apre il baratro, la denuncia di Büchner. Con chi sta questo popolo? È volubile, infiammabile, corruttibile.

Tempo dopo, nel 1934, Bertolt Brecht, che pure ammirava la drammaturgia del giovane Büchner, si chiese come rappresentare il popolo, in “Cinque difficoltà incontrate scrivendo la verità”. La domanda era, ed è, come trasporre in scena la lotta di classe: qua, i popolani ne escono a pezzi. Manderanno fieri alla ghigliottina Danton sostenendo Robiespierre. E poco dopo condanneranno anche lui. La macchina della storia è inesorabile e si tiene in piedi solo con il terrore della ghigliottina o con lo scintillio evanescente delle parole.

La morte di Danton, infatti, è un capolavoro di critica alla retorica politica: smaschera la suadente e sublime vittoria del discorso e la conseguente perdita di gravità della lotta politica. In questa affannata e implacabile indagine sulla natura umana non si salva nessuno, tanto meno i “cittadini” (e pensare che adesso ci si chiamano quelli dei 5stelle). Ecco la disillusione del giovane Georg Büchner: per quanto la si invochi, la rivoluzione non avviene. O non riesce.

Il passo, nella storia recente, è breve.

Quanti movimenti abbiamo attraversato, recentemente, in Italia, dal “mitico” Sessantotto in poi? In ordine sparso, andando indietro con la memoria: la “pantera”, i girotondi, gli arancioni, i no-global, i no-tav, gli indignati…

I presupposti, lo sappiamo, in Italia ci sarebbero tutti: ma perché la rivoluzione non esplode? Avremmo dovuto o potremmo fare di più?

E anche di quelle tre, meravigliose, parole – Liberté, Egalité, Fraternité – che ne è stato? Sono scomparse dal lessico della politica, addirittura hanno accezione discussa: da quando non sono più un punto fermo e un obiettivo, ma un retaggio addirittura noioso del passato? Tutto declina in una retorica spenta, in vuoto eloquio che svuota l’azione.

Al tempo stesso, infine, La morte di Danton nella regia di Mario Martone sugella e svela un altro paradosso: è il teatro “borghese” di Torino a farsi carico di evocare un’opera decisamente anti-borghese, addirittura rivoluzionaria, che dovrebbe far tremare i polsi all’autorità e all’istituzione (o a metà del pubblico della sala stracolma).

Ma è nel paradosso che Büchner si invera, si mostra, così come, al proprio interno, La morte di Danton è apoteosi e condanna di una pagina di storia, straziante e feroce nel mostrare come, alla fine, non ci sia speranza.

Allora come oggi, la politica è retaggio di un epocale fallimento, di quel paradosso. Ha vinto (e sempre di nuovo sta vincendo), il disincanto, l’opportunismo, la bieca e semplice legge del più forte, o del potente di turno. Piccolo cabotaggio, postumi dell’euforia rivoluzionaria. Il cadavere delle rivoluzioni è là, sul tavolo autoptico.

Quello visto al Carignano di Torino è un bellissimo spettacolo: amaro, impegnativo, importante.

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