Teatro
La memoria del corpo
C’è un saggio divertente di Marc Augé intitolato “Il tempo senza età” (Raffaello Cortina Editore) il cui sottotitolo esplicativo è La vecchiaia non esiste.
A un certo punto, il noto antropologo dichiara: «gli attori professionisti sono più crudelmente condannati all’onestà di quanto lo siano gli scrittori o gli intellettuali poiché i ruoli che accettano di interpretare (e di cui non sono gli autori) devono moltissimo al loro aspetto e alla loro età. Per quanto questa affermazione possa a prima vista sembrare paradossale, gli attori, loro, non hanno l’agio di nascondersi dietro lo schermo del linguaggio. Sebbene il cerone e il trucco consentano loro un certo margine di manovra, ciò che noi apprezziamo nei più grandi attori o nelle più grandi attrici è il loro dono, nel filo degli anni, di incarnare personaggi che hanno sempre la loro età: invecchiando si rinnovano».
Ripensavo un po’ a questo libro, l’altra sera al Teatro Argentina, di fronte a quei mirabili “anziani” che danzavano sul palco. Erano nientemeno che Mats Ek, Ana Laguna, Susanne Linke e Dominique Mercy (260 anni in quattro) nell’elegantissimo gala di danza curato da Daniele Cipriani. Insomma, la “storia” recente della danza moderna, quattro “mostri sacri” che con gusto e ironia continuano a esibirsi.
Già l’espressione mostro sacro la dice lunga: un mostro è affascinante nel suo essere respingente, ma qui è sacro, ovvero inviolabile, intoccabile, indiscutibile. Eppure quelle due coppie di genii (Ek e Laguna dal Cullberg Ballet; Linke e Mercy dal TanzTheater di Pina Bausch) incarnano, ovvero sono – nella loro pelle, nella loro struttura – danza, così come un jazzista è musica: interiorizzazione totale della propria arte. Al di là del tempo, al di là dell’età. Ci aveva pensato proprio la Bausch a far danzare gli over 65 in Kontakthof, poi – ad esempio qui in Italia con Virgilio Sieni, a partire dal commovente Osso per poi far danzare tutta Italia o quasi – è stato tutto un portare in scena la terza età.
Roma, si sa, ha una certa predilezione per le celebrazioni: da sempre è abituata a bruciare in piazza i suoi intelletti migliori, salvo poi beatificarli o farne statue commemorative. Si celebra il morto da Remo (e Giulio Cesare) in poi, e oggi più che mai si fanno retrospettive e omaggi, si scorgono vedove ed eredi cantar ovunque le gesta del maestro di turno. Centenari, bicentenari, trecentenari sono il pane quotidiano della capitale: senza disagio, si supera la pesantezza del sepolcro imbiancato.
Va benissimo, per carità: ma così di commemorazione in anniversario, guardando al passato, evitiamo di pensare al futuro. Roma delle rovine, dei cocci, delle lapidi, degli altari e dei balconi si dà gran da fare. Del doman non v’è certezza.
Per fortuna, però, capita poi che alcuni eventi – come questo gala di danza – fermino il tempo, lo riportino a una condizione umana, presente e viva. È una “distensio animae”, come diceva Agostino di Tagaste. Il tempo che si dipana nei nervi, nelle giunture, nelle rughe, nel grigiore dei capelli, nelle mani: un tempo accettato, vissuto ma non patito. È il tempo che si rinnova, come l’età di chi lo incarna. È il tempo senza tempo di chi è presente a se stesso, senza bluffare, senza mentire, senza ritocchi o plastichine.
Allora Dominique Mercy, solo in scena, rompe il ghiaccio: imbarazzato lui, imbarazzati noi, all’inizio. Si muove dentro una coreografia non all’altezza firmata da Pascal Merighi, tra proiezioni video, un neon e un microfono dove dire cose vane. Giacca e pantaloni, torso nudo, fogli di carta in mano. Lentamente, nonostante tutto, conquista la sala e affonda la sua zampata d’artista nel crescendo finale.
Susanne Linke, in un omaggio alla Sagra di Stravinskij, evoca riti passati ma con eleganza, misura e, naturalmente, maestria. Il movimento lento, circolare, ossessivo, quasi interiore o interiorizzato, si dipana in un ritmo sospeso, astratto, in cui si rinnova la presenza magnetica della Linke.
Poi ci sono Mats Ek e Ana Laguna. Marito e moglie, ma questo non importa. Due interventi, duetti ironici, delicati, commoventi, deliziosi. Il primo, Potato, gioca appunto su e con un sacco di patate. I gesti sono quelli che hanno connotato le creazioni di Ek, e da sempre territorio della Laguna, che ne è stata straordinaria protagonista. Le ginocchia piegate, i piccoli salti, la mano che batte sulla testa, il piede a martello. Su musiche di Gyorgy Kurtag e di Marta Kurtag, e Potato diventa un passo a due avvolgente, spaccato di dolcezze quotidiane. Poi il finale della serata, affidato ad un’altra creazione dal titolo significativo di Memory. La scena si riempie di un arredamento borghese: una lampada, una poltrona, un letto. Lei entra, lui entra, lei crolla, lui la sorregge, lei esce, lui la segue. Poi subito rientrano. Danzano, si toccano, si inseguono, giocano, scherzano, forse sognano forse si amano. Sono una coppia di anziani, non nascondono l’età, non nascondono il tempo trascorso: che anzi è lì, accanto a loro, passo dopo passo.
Il corpo ripete a memoria i gesti, il corpo sa, ha sempre saputo. La sequenza finale sarà come l’apertura: ma il valore cambia perché lui rimarrà solo in scena. Lei se n’è andata: e non resta che provare a dormire, dopo aver vissuto tutti quei ricordi. Ma il vecchio uomo, ora impacciato, cade dal letto mentre la luce si offusca, rimane solo il buio che verrà. Nostalgia e memoria, ironia e affetto, affetto, danzando ancora assieme. E la platea si commuove.
Mats Ek svela una capacità di movimento inusitata, elegante, agile come sempre. Ana Laguna, che già vedemmo danzare la scorsa estate al Premio Positano, ha dalla sua una bellezza invincibile.
Il tempo, dice Augé, non esiste: nemmeno la vecchiaia. Qui non si celebra il passato, si festeggia la gioia del presente.
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