Costume
La grandezza del sopravvivere
Almeno la metà delle volte che sono andato al cinema, negli ultimi trent’anni, l’ho fatto da solo. Ci vado quando voglio, scelgo il film che voglio. E mi siedo nella poltroncina esattamente al centro, max fila otto, fregandomene che la migliore posizione certificata sia più indietro e più su. Voglio che lo schermo si faccia cielo. Volarci dentro. E a bocca chiusa: i commenti durante, o subito dopo, mi annoiano. E poi non danno tempo alle emozioni lunghe. Per questo soli è meglio che accompagnati.
Da marzo non ci sono più andato. Mi è mancato lo slancio. L’ho messo involontariamente tra le cose non essenziali.
Tanto poi ci si ingozza ugualmente, a casina. Anche se il film appena uscito non c’è quasi mai sulle piattaforme e quando lo vedrai, oltre che senza immersione totale, sarà anche già masticato. Dalle mandibole di opinioni.
Ricordo Il postino di Troisi, in Vittorio Emanuele, il giorno dell’uscita. Eyes wide shut, il giorno dopo. È bello catturare il film mentre sta passando.
Detto questo, non sarà blasfemo aggiungere che il mondo del cinema non ha le gravità di sopravvivenza economica e personale di molte attività piccole e private. E io, voi, se non andiamo al cinema, godiamo meno, ma non soffriamo.
Non ne farei una battaglia filosofica, e mi risparmierei le solennità tra indignazione e saggezza.
Queste ultime soprattutto a sostegno dei teatri (cinema e teatro vengono sempre detti insieme, congiunti).
Che tutto d’un tratto sembra siano sempre stati presi d’assalto, come Pronti Soccorsi. I ragazzi del Liceo, lo so per esperienza indiretta, ci vanno, ci sono andati, solo quando una prof si è presa la sbatta di portarceli. La metà delle volte per uno spettacolo che piace tanto a lei, ma che ha annoiato loro. Io ci vado, quando va bene, una volta all’anno, e ogni volta esco felice. Sì, felice. Ma non è nei miei pensieri quotidiani. Come non lo è per il 90% delle persone. Che pure hanno fame di quella che chiamiamo cultura, che è poi fatta di parole, musica e immagini. E se il teatro greco era l’unico luogo dove queste tre sorelle si incontravano, oggi ci siamo immersi. Se il teatro è stato l’unico luogo dove si intratteneva il pubblico, oggi siamo intrattenuti a oltranza, oltre che a distanza. La cultura è onnivora e ambigua.
Ho conosciuto persone con abbonamento fisso a teatro e una vitalità bassa, analitica; con un pensiero prudente e borghesuccio. All’inverso, umani che come unico posto prenotato hanno quello al bancone del bar, capaci invece di narrazioni, e azioni, spudorate e autentiche. Teatrali.
Ma anche il viceversa, ovviamente.
Il teatro non è un antidoto, ma un privilegio a disposizione.
Quello che va ribadito è che ci lavora gente che deve andare avanti, e va sostenuta. Che se tutto è a norma ed è dimostrato che non intacca i contagi non ha senso chiudere (ma anche qui, abbiamo a che fare con numeri ballerini e nessuna certezza).
Si tratta di Sopravvivere. Un verbo bistrattato, perché umilierebbe il Vivere, nella stanca contrapposizione tra anima e corpo. Eppure è il verbo che contiene l’essenza di noi Sapiens. Il nostro motore dalle caverne in poi.
E non serve andare alla notte dei tempi: generazioni a noi vicinissime sono state allenate al sopravvivere, vi si sono aggrappate. Maturando una forza interiore, e per questo spirituale, che nessuna recita potrà mai eguagliare.
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