Teatro
La giornata mondiale del teatro: festeggiamo?
Oggi ricorre la Giornata Mondiale del Teatro. Un’iniziativa creata nel 1961 dall’Istituto Internazionale del Teatro e dall’Unesco. Una festa, insomma. Proviamo a festeggiare?
Ogni anno, una personalità dello spettacolo e della cultura teatrale elabora un messaggio che viene diffuso ovunque. Per il 2017 è stata la volta di Isabelle Huppert. Attrice straordinaria, sia al cinema che in scena: l’ho vista, recentemente ad Atene, in una Fedra che attingeva dai classici alle versioni contemporanee. Phedre(s), questo è il titolo, si avvaleva di una regia, dell’acclamato Krzysztof Warlikowski, appena superiore alla sufficienza, niente di che, e di comprimari accettabili (eccezion fatta per la superba ballerina Rosalba Torres Gerrero).
Ma al centro c’era lei, Isabelle. Dirompente, disarmante, destabilizzante: la Huppert, con il suo fisico minuto, con quella faccetta da killer, in scena diventa un gigante. Può fare quel che vuole e lo sa bene: nelle vesti torbide di Fedra, la vediamo lavarsi i denti, masturbarsi, sbattersi per terra, simulare una fellatio, gigioneggiare, fare la bambinetta, gridare, disperarsi, aggredire tutto e tutti. Nelle tre ore e passa di spettacolo, tiene la scena con una fermezza invidiabile: la sua è una lezione di maestria indiscussa e indiscutibile. Salva uno spettacolo che scricchiola, ne fa un suo cavallo di battaglia, e incanta.
Ecco, al di là di ogni retorica, la magia del teatro, a ogni latitudine. E proprio sulla trasversalità geografica ha puntato Huppert per il suo messaggio scritto per la Giornata Mondiale del teatro.
Dice l’attrice: «Una giornata, cioè 24 ore che cominciano con il Teatro NO e Bunraku, passano per l’Opera di Pechino e il Kathakali, si soffermano tra la Grecia e la Scandinavia, vanno da Eschilo ad Ibsen, da Sofocle a Strindberg, poi passano tra l’Inghilterra e l’Italia, da Sarah Kane a Pirandello, e attraversano anche la Francia, tra gli altri, dove siamo noi e dove Parigi è ancora la città che accoglie il maggior numero di compagnie teatrali straniere in tutto il mondo. Poi le nostre 24 ore ci portano dalla Francia alla Russia, da Racine e Molière a Cechov, e poi attraversano l’Atlantico per finire in un campus della California, dove forse dei giovani reinventano il teatro. Perché il teatro risorge sempre dalle proprie ceneri. Non c’è convenzione che non si debba instancabilmente abolire. È così che il teatro resta vivo. Il teatro ha una vita rigogliosa che sfida lo spazio e il tempo, le opere teatrali più contemporanee si nutrono dei secoli passati, i repertori più classici diventano moderni ogni volta che li si mette in scena di nuovo».
Il teatro ha una vita rigogliosa, scrive. E ci piacerebbe pensarlo anche per l’Italia. Vero è che il teatro resiste e insiste, che si ostina a vivere (oppure a sopravvivere) nonostante sia attanagliato e tagliato. Nell’arco di pochi giorni due notizie si sono susseguite: da un lato, il Mercadante di Napoli chiuso per “sistema antincendio inadeguato”, dall’altro la sindaca Appendino di Torino che taglia 5,8 milioni al sistema cultura di Torino.
Che segni sono? Come li leggiamo o li commentiamo? Basta dire che ci cadono le braccia?
La comunità teatrale è divisa e litigiosa, impoverita e frustrata, costretta alla fame e a lavori sempre più precari. Forte si avverte la disparità con altri sistemi e civiltà teatrale d’oltralpe.
Oggi i nostri teatri sono trasformati o devono trasformarsi in piccole, ambiziose, aziende: luoghi che hanno introiettato l’etica del botteghino, il dovere dell’incasso, gestiti da manager oculati e capaci ma costretti a muoversi secondo schemi economici e non certo poetici. Il ritmo del teatro italiano è un “algo-ritmo”, quello che regola i flussi dei finanziamenti. Per salvare il salvabile, la memoria stessa del teatro, occorre far cassetta.
Assistiamo attoniti a una corsa verso la commercializzazione anche bieca, alla caccia al nome di richiamo, al titolo facile facile. La corsa verso una idea di condivisione e di comunità basate solo sul consumo: lo spettatore è sempre più solo un consumatore.
Scrive ancora la Huppert nel suo manifesto: «Il teatro è molto forte, resiste, sopravvive a tutto, alle guerre, alle censure, alla mancanza di denaro. Basta dire “la scenografia è una scena nuda di un’epoca indefinita” e far entrare un attore. O un’attrice. Che cosa farà? Che cosa dirà? Parleranno? Il pubblico aspetta, lo saprà, il pubblico senza il quale non c’è teatro, non lo dobbiamo mai dimenticare. Una persona nel pubblico è un pubblico».
Chiediamocelo: resisterà davvero il teatro? Resisterà quella persona? Fino a che punto vorrà ancora diventare pubblico?
Intanto al Ministero dei Beni Culturali ci assicurano che stanno lavorando alacremente a una legge di settore. Sarebbe una buona notizia, anzi una novità assoluta: una legge quadro, la prima in Italia, potrebbe colmare le lacune diffuse e regolamentare, naturalmente a grandi linee, la vita teatrale. Allora vorremmo dedicare questa Giornata Mondiale del teatro non tanto e non solo alle attrice e agli attori, ai tecnici e ai registi, ma proprio al ministro Dario Franceschini e a chi sta lavorando per formalizzare la legge.
A loro giriamo le parole di chiusura scritte da Isabelle Huppert: «Mi ricordo di un vecchio direttore di scena all’antica, che prima di sollevare il sipario, dietro le quinte, diceva ogni sera con voce ferma: “Spazio al teatro!”. Questa sarà la parola finale».
Ecco, lasciamo più spazio al teatro e meno al botteghino. E magari, chissà, un po’ meglio staremo.
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