Teatro
La gioia oscura di Pippo Delbono
Ci vuole una poesia disincantata e sincera contro il dubbio della pochezza delle cose, l’estrema semplicità, l’inanità che mette a rischio le intenzioni. E questo lavoro di Pippo Delbono – in prima nazionale all’Arena Del Sole di Bologna – a tratti puerile, interrotto da “buchi neri” (come lui stesso li definisce), tanto semplice e quasi per nulla recitato e inscenato, è in essenza un lavoro poetico.
L’autore fluttua sulle composizioni floreali di Thierry Boutemy, soffocanti per la variegata bellezza e le loro discese verticali, esaltata dalla cura delle luci. Fluttua su parole che suonano, in buona parte improvvisate ma anche registrate, camminando attorno alla platea nel semi-buio, o sedendosi con in mano una scaletta dello spettacolo stampata su fogli abbandonati a fine serata, come a rivelare a tutti le nervature di questa Gioia. Un lavoro aperto, fedele alla natura di chi cerca e non definisce.
Dopo il suo Vangelo, ne La Gioia Delbono parla, ricorda aneddoti che passano dalla morte e finiscono in istanti di gioia. O partono dalla follia, verso momenti di liberazione e incanto.
E’ un lavoro in movimento; una danza allegorica e fisica accompagnata dalle parole dell’autore, da testi poetici scanditi da una voce carezzevole, ipnotica, che Delbono sa far suonare. Voce che rivela forza, profondità, ma anche gentilezza, dolcezza, e inferni plurimi. Voce capace di acuti femminili e tinte baritonali, cupe quanto il suo volto da Mangiafuoco. Delbono adora i suoi burattini, ama sensibilmente tutta la sua compagnia di attori estratti da vite ai margini, disperate; è così evidente l’amore che tutti li lega, da fare piangere, forse di una gioia oscura. Il primo è Bobò, suo fedele compagno di scena da decenni: piccolo, vecchio e diversamente espressivo; durante il racconto si svela la veneranda età di quell’omino sordomuto salvato dal manicomio di Aversa: 82 anni, quaranta dei quali trascorsi assieme a Delbono, dalla famiglia fino al teatro. Nel suo abito ambrato, Bobò soffia sulla candelina di compleanno a ripetizione, reitera gli anni, ne spinge via il peso; poco dopo lancerà il suo lamento-canto, punteggiato dai movimenti dei brevi arti. Un ibrido tra un anatema pubblico e un poema di versi incomprensibili. Sarà il momento più eloquente di questo racconto di gioia: Bobò che coi suoi versi senza parola stona un canto straziante ma colmo di stupore e amara gioia di vivere, freak ormai vecchio, sopravvissuto all’oblio del manicomio, oggi simbolo di un teatro verista che rifugge tecniche espressive.
Non è un spettacolo compiuto, tanto da promettere una Gioia-2, 3 e così via, nuovi percorsi assieme ai 13 attori, tutti vestiti in abiti fiabeschi che ricordano i Totò e i Davoli di Pasolini o i personaggi del mago di Oz. In scena anche i tecnici a posare barchette di carta, sacchi di stracci, di foglie secche e di fiori, altro elemento verista di questo primo studio.
Siamo davanti a una narrazione poetica, ispirata ad opere immortali come La Morte felice di Camus e la La morte di Ivan Il’ic. Dall’incontro sereno con la fine della vita scaturisce un senso di gioia; nel canto, nel ballo, nella musica rock e melodica, e nell’amore vivido tra Delbono e la compagnia che egli guida come altero burattinaio. Fin quando non ne viene all’improvviso sopraffatto, assorbito, fino a dileguarsi ansimante nel buio, a immaginare con noi come non finire mai questo spettacolo che è la sua vita, il suo durare. Noi pubblico, incapace di comprendere appieno qualunque dramma personale se non il nostro, sentiamo qualcosa che ha a che fare con la verità, per questo la platea gremita è mossa da applausi a scena aperta e da sconcerto.
Per gioire bisogna superare la morte, ma il male che incatena l’autore da oltre vent’anni testimonia – come fantasma in scena non previsto – che si può vivere una intera vita incorporando conclamati sintomi di morte.
Così, in Delbono attore (sieropositivo da diversi anni), recitano assieme vitalità febbrile e minaccia di una morte preannunciata.
Non è possibile – non è onesto – dimenticare il dato biografico nel considerare le produzioni di Pippo Delbono.
Torniamo alla prova. Se manca la recitazione in senso stretto e prevale la sola presenza non dispiace. Gli attori, tutti fino ai tecnici, esistono in sé stessi, e trasmettono un’energia sconosciuta, forse è quella dei Felici Pochi di Elsa Morante, tra gli stracci sul palco, le foglie secche e i tappeti floreali accesi da luci cangianti che non risparmiano i solchi neri, i lividi ed i sorrisi infantili di Delbono, né il fremito nervoso di Bobò o i passi sensuali della ballerina di Milonga.
Si prende tutto di questo lavoro perché si intuisce il non visibile, nascosto sotto i fiori o dietro la panchina dove Bobò e Pippo siedono dialogando sul senso della loro unione come Didi e Gogo nell’opera più nota di Beckett. Fine delle paure, fine della vita; fine delle paure inizio della gioia: questo è forse uno dei corollari possibili.
L’inizio e la fine del lavoro coincidono nel cammino della compagnia unita verso il nuovo viaggio. A noi resta la suggestione di avere attraversato con Delbono – dentro il suo corpo e la sua mente (abitata da buchi neri come questo spettacolo) – luoghi di morte e dolore, verso un distacco, un superamento della paura e dell’idea della caducità delle cose, che potremmo, impunemente, chiamare gioia.
Devi fare login per commentare
Accedi