Teatro

La Fallaci in Algeri: follia organizzata di un Rossini off

16 Febbraio 2020

Con quest’ultima “Italiana in Algeri”, si è capito una volta per tutte che la follia di VoceAllOpera, l’associazione milanese dell’opera off per eccellenza, è decisamente una follia organizzata, per dirla alla Stendhal. Nel suo piccolo serraglio dello Spazio89, il direttore artistico Gianmaria Aliverta ha messo a punto una mini-produzione di tutto rispetto del capolavoro di Rossini che funziona a meraviglia. Brillante e spassosa, due ore e mezza di irresistibile comicità ritmica fatta con niente: una pedana e un palo multiuso tra il serio e il faceto – a dire il vero molto più faceto.

L’idea del regista è talmente surreale che vale il viaggio fino a via Fratelli Zoia. Nel solito futuro distopico di ogni nuovo allestimento che si rispetti, Algeri è una colonia americana governata da un bey che scimmiotta il suo idolo, ovvero Trump, con tutto il repertorio di arroganza e misoginia che ci si aspetta. All’improvviso irrompe l’italiana, Isabella: occhialoni scuri e cappello, una sigaretta sempre tra le dita e macchina da scrivere portatile con sé. In breve, Oriana Fallaci rediviva. Da qui si scatenano tutti i malintesi previsti dal libretto di Angelo Anelli, col supporto non trascurabile delle gag divertenti e demenziali aggiunte dal regista.

Del resto “L’italiana” è proprio così: un’opera che tende al comico spinto con la sua ebbrezza musicale trascinante e tutti i vari “dindin”, “bumbum” e “crà crà” del caso. Ma perché funzioni serve una compagnia che non sappia soltanto cantare: i cantanti devono recitare davvero. Aliverta questo lo sa bene, e non a caso fa ruotare lo spettacolo attorno al più carismatico in locandina. Si tratta di Alfonso Ciulla, che riesce a essere credibile nella parte di un Taddeo ipocondriaco, tutto salviettine disinfettanti e Amuchina e con una segreta smania di darsi alla lap dance; per di più sa anche cantare, sa sillabare, ha il volume, ha le agilità: insomma, un buffo da segnarsi. Sua perfetta spalla il Mustafà di Lorenzo Barbieri, bravissimo a convincere tutta la sala che l’“insolito ardore nel petto” del bey non sta affatto nel petto. Ma per un'”Italiana” che si rispetti servono anche la coloratura e il fraseggio sicuro, e per fortuna la protagonista Sara Rocchi ne è ampiamente provvista, oltre a essere precisa ed elegante. Ottima prova anche di Marta Di Stefano, simpaticissima Zulma. Più debolucci nel canto ma sempre convincenti nell’interpretazione il Lindoro di Bekir Serbest, l’Haly di Lorenzo Liberali e l’Elvira di Kaori Yamada.

Menzione speciale per il direttore Marco Alibrando, classe 87, alla testa di un organico orchestrale composto dalla Civica Orchestra di Fiati di Milano e dall’Ensemble d’archi di VoceAllOpera. Già dall’ouverture si rivela un musicista solidissimo, capace di far funzionare una partitura micidiale, dove tutto è esposto e non ci vuole niente a perdersi cantanti e orchestra (che pur volenterosa, non è la Filarmonica della Scala). Invece tutto fila liscio e non appena qualcuno esce dai ranghi – e con l’orchestra a lato della sala ci può stare – il direttore lo riacciuffa immediatamente. Quanto al concertato del primo atto, era più preciso di tanti Rossini che si sentono nei teatri ufficiali.

Foto di Gianpaolo Parodi.

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