Teatro
“La donna albero”, il racconto di una storia di violenza
“La donna albero” regia e adattamento di Rosario Sparno, che è magistralmente in scena con i bravissimi Antonella Romano e Luca Iervolino, è tratto da un romanzo di Andea Camilleri.
Tratta un dramma ambientato nella Sicilia di metà novecento, dove la Storia, quella con la S maiuscola, affianca, penetra e plasma come argilla le storie di vita dei suoi abitanti. Povera gente che si arrangia con lavori di fortuna, che si esprime usando il dialetto, che spera di poter vincere alla lotteria per poter risollevare il tenore delle proprie vite.
Quella di Minica e Nino è un cunto d’amore e di violenza. E nel racconto delle loro drammatiche vicende personali c’è il conto da pagare ad una vita che frappone ostacoli al loro desiderio di avere un bambino. Inizialmente Nino si rivolge a vari dottori, la Domenica va a cantare sotto i balconi delle case, serenate o canti che sberleffano il signorotto di turno che ha fatto uno sgarro al boss mafioso. Lascia Minica da sola, ma è proprio lei a dirgli di non rinunciare alle cinque lire che li aiuta a sopravvivere. La guerra si presenta alle loro vite con la costruzione di bunker sotterranei costruiti sotto la terra, vitale per la loro sussistenza, deviando il corso di un fiume che non riuscirà più a riempire il pozzo. La terrà privata d’acqua inizia a diventare arida.
Fortunatamente un giorno Minica si accorge che aspetta. La guerra incalza, e anche le canzoni di Nino per poter sopravvivere devono diffondere il verbo fascista, modifica i testi inserendo parole, e quindi concetti, cari al regime.
Il racconto procede attraverso la voce di Nino, Minica e Totò, l’amico con cui la Domenica va a cantare e suo consigliere. I personaggi sono se stessi e narratori esterni, danno la voce ad altri personaggi, e sono alla stesso tempo coro alla narrazione.
La voce piena di speranza di Minica per la nuova vita che porta in sé viene brutalmente soffocata da un atto di violenza: lo stupro e le percosse inferte per mano di Michele Barrafato, un ferroviere che rimasto vedovo, ha un’attrazione particolare per le donne incinte e che era stato precedentemente ricevuto cordialmente a casa di Minica a cui ha anche regalato dei cioccolattini. La donna non solo ha perso il bambino, ma ha perso la capacità di generare: la spranga con cui è stata colpita in testa, le è stata inserita nella vagina, provocando danni irreversibili.
Nel vederla sgonfia, maltrattata, corpo vuoto e priva di vita, Nino è stravolto. Avvicinato dal boss mafioso, viene persuaso dalle sue parole: attendere che la giustizia faccia il suo corso avrebbe significato che dopo qualche anno un omicida sarebbe ritornato in libertà. Un atto così crudele richiedeva una giustizia fatta da sè. Nino uccide Barrafato accoltellandolo, gli taglia i cabasisi e glieli mette in bocca.
A dire a Minica l’orrenda verità sarà una donna a cui lei si rivolge perché le riveli il futuro. La donna nello svelarle la verità, le liscia i capelli con le mani con molta tenerezza, come se fosse porcellana, come un vetro che si può frantumare. Minica si è rotta, ma pensa che la bellezza possa nascere anche dal sole che si posa sui cocci rotti e li fa risplendere. Non si arrende. La sua mente diventa però estranea alla realtà brutale che la circonda. Il suo travaglio diventerà resistenza, opponendo le ragioni del suo cuore a un mondo che ha smarrito ragione e pietà. Muta la sua forma, ma non piange Minica, neppure quando, vedendola piantata coi piedi nella terra a mò di albero, il marito la schiaffeggia per farla rinsavire.
Rinsecchita, rifiuta persino il cibo, è sterile, non prova emozioni, come un albero che non ha frutti, come l’acqua deviata che inaridisce la sua terra, così la violenza subita non irrora le sue membra.
Nino decide allora di entrare nel suo folle mondo e assecondare la sua pazzia: le innaffia i piedi fino alle ginocchia, le costruisce un muretto intorno per ripararla dalla pioggia, le taglia i capelli come stesse potando rami. La asseconda persino nell’assurdo tentativo di provare un innesto con un nespolo. Dopo il naturale fallimento di un’opera così bizzarra, Minica chiederà di essere abbattuta perché possa essere almeno utile come legna.
L’uomo ha apportato distruzione, modificato il corso della storia, ha effettuato soprusi, innescato bombe, ha violato la carne umana, spogliandola del valore che le è proprio: difendersi dagli attacchi esterni, sentire il dolore del mondo che si inabissa nelle tenebre. Minica è il prodotto di quel patto di fiducia tradito tra l’uomo e la società. L’uomo non è più animale sociale, ma homo homini lupus. L’orrore generato da quest’infrazione ha generato l’incapacità di riprodurre.
L’attesa, però, è travagliare, un tempo in cui l’immobilità è pazienza di rituali e cura, di disperata forza di credere nel miracolo di un grembo fertile che nasca dalla terra. E così dopo lo scoppio di una bomba, Nino sente tra le macerie un miagolio che non appartiene ad un gatto. É un bambino.
Le sedie sono elemento dello spazio e del tempo. Sono vagoni ferroviari, letto di ospedale, roteano col fluire del tempo, si agitano come le vicende dei personaggi e il mondo sconvolto.
Uno spettacolo eccezionale dove la forza della parola diventa, seppur in forma dialettale, universale. Perché la violenza e la volontà di contrastarla con la speranza di un mondo nuovo, smuove le anime, unisce le lingue, fa vibrare le corde più profonde, facendole risuonare all’unisono.
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